Tutto quello che ho visto degli Oscar 2024

Di molti film, anche buoni, visti negli ultimi mesi non ho appuntato niente, l’Oscar offre l’occasione per recuperare qualcosa. Cominciando dal Miglior Film, Oppenheimer parte come favorito ma non è di certo il mio favorito. Nolan racconta di questo mondo assurdo dove, qualsiasi cosa stia facendo, c’è almeno un quartetto d’archi a commentare straziato le tue azioni. Più spesso, c’è un’intera orchestra in crescendo drammatico a seguirti mentre ti versi il caffè o compili la lista della spesa. Tutta questa tensione, inevitabilmente, porta i Paesi verso la corsa all’atomica. Nolan continua a fare grossi film che non mi cambiano la vita, e in questo caso non sceglie né di romanzare la storia, come fanno classicamente gli americani, né di provare una struttura in qualche modo sorprendente. C’è la messa in scena di una serie di eventi, un po’ mescolati, un po’ decolorati, molto, troppo dialogati, e al centro un assurdo, forse un po’ morboso, striptease della bomba (2,5/5).

Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, Anatomia di una caduta di Justine Triet, Povere creature! di Yorgos Lanthimos e La zona d’interesse di Jonathan Glazer, di cui si è già detto, sono tutti ottimi film, e non è affatto poco. Lanthimos con Poor Things procede sul percorso di “normalizzazione” intrapreso con La Favorita, ma preferisco questo al tentativo di ripetere le intuizioni più radicali dei suoi primi lavori. Di Povere Creature si è detto molto, il film è interessante e bello da vedere, Emma Stone è l’ottima protagonista di un’opera che richiama la meraviglia di Melies e Lang, le vedute dell’inferno di Bosch, ci mette ironia, crescita e acquisizione della consapevolezza. Povere Creature richiama, capovolgendoli, i temi di Dogtooth, con una protagonista estranea ai vincoli sociali che sperimenta una progressiva acquisizione della conoscenza, anche lessicale, che invece nel film del 2009 viene negata o manipolata. Oltre a Stone, meno appariscente ma bravo Mark Ruffalo nell’incarnare una realistica e altrettanto preziosa caricatura maschile (4/5). Scorsese, dopo le delusioni di Silence e The Irishmen, torna con un filmone, Killers of the Flower Moon, epico e cattivo, fatto di personaggi orribili e monumentali (perfetti De Niro e DiCaprio), capaci di ingannare perfettamente anche loro stessi (4/5). A portare sullo schermo l’ambiguità e l’incertezza c’è anche Anatomia di una caduta, un film affasciante, compatto, rigoroso, sulla fragilità della realtà, con al centro una splendida Sandra Hüller, quest’anno anche in Zone of Interest (4/5).

American Fiction di Cord Jefferson è quel che si suol dire un film carino. Parte bene ironizzando sull’incapacità contemporanea di contestualizzare parole e pensieri nei tempi e nei luoghi in cui hanno avuto origine, nel suo svolgersi conserva il tema integrandolo con l’appiattimento verso rassicuranti luoghi comuni che fa la fortuna di molti autori (scrittori, in questo racconto). Si perde, però, in una specie di commedia degli equivoci, e alla fine si pone come un film gradevole, ma non particolarmente incisivo e inutilmente sospeso (3/5). Past Lives di Celine Song è un film molto romantico, nostalgico, sentimentale, ce lo dice fin dalla prima inquadratura e lo ripete in continuazione. Parla di vite possibili, incroci statistici e coincidenze perdute, ma si dimentica di costruire i suoi personaggi. Nonostante il suo successo, mi è quindi sembrato un film teorico e senza guizzi, un film sul destino o sulla sua mancanza, con più di uno sguardo a Wong Kar-wai, che non suscita interesse reale nella destinazione dei suoi piattissimi protagonisti, che si limitano a enunciare soltanto le caratteristiche che li renderebbero esseri umani, oltre che le parti di un film a tesi (2,5/5). Di Barbie mi sento di dire solo che dalla coppia Gerwig Baumbach mi aspettavo decisamente di più. Prima dell’uscita del film pensavo a come sarebbe difficile scrivere una sceneggiatura realmente interessante su un prodotto come Barbie, e infatti non lo hanno fatto, hanno titillato gli istinti più elementari di una sorta di femminismo glam e instagrammabile, portandolo nei canoni più risaputi della commedia demenziale americana. Peccato. (2,5/5).

Anche nella categoria Miglior Film Internazionale molti titoli interessanti: Perfect Days, un Wenders in formissima che anche da noi hanno visto in tanti, dimostrando che fare cinema vero può pagare, ancora la Zona di Interesse di Glazer, e Io Capitano di Matteo Garrone, un’odissea che forse non è il suo film più sorprendente (per molti versi credo Garrone sia il nostro regista più bravo), ma un film importante e necessario (3,5/5).

Infine il Miglior Film d’Animazione, categoria potenzialmente interessantissima ma quasi sempre schiacciata su posizioni statunitensi e più precisamente disneyane. Questo potrebbe essere però l’anno della seconda, strameritata statuetta ad Hayao Miyazaki, dopo La Città Incantata del 2003, con il visionario Il Ragazzo e l’Airone. Gli altri titoli sono il Pixar (Disney) Elemental (3/5), un po’ confuso e non proprio memorabile, ma comunque migliore specialmente delle ultime prove a marchio puramente Disney, Nimona e Spider-Man: Across the Spider-Verse. Nimona è un cartone molto Netflix, fatto di tratti stilizzati, montaggio veloce e messaggi inclusivi condivisibili quanto veicolati in modo didascalico (3/5), mentre Spider-Man è uno straordinario esempio di avanguardia superammiccante. Nell’ennesima variazione sul tema degli universi paralleli, la storia è terribilmente maltrattata, una sovrapposizione di momenti che riprendono altre storie, ne mescolano i topoi senza portare a compimento o alla maturità nessuna narrazione. Dal punto di vista estetico e cinetico riprende varie correnti sperimentali ampiamente sperimentate, specialmente nell’animazione, portate in un montaggio epilettico, così costantemente frammentario e ultraveloce da non avere ritmo (2,5/5).

Update: ho dimenticato, in questo appello, La Meravigliosa Storia di Henry Sugar, cortometraggio (ma di 40′) di Wes Anderson e oggi prima statuetta per il regista. I quattro corti che Anderson ha tratto da scritti poco noti di Dahl sono su Netflix e sono abbastanza sorprendenti. Sia per la versione matura dello scrittore che offre uno straordinario punto di partenza, sia per quello che mi sembra sia un nuovo periodo d’oro del regista. Henry Sugar unisce l’impostazione teatrale e l’estetica consolidata di Anderson, che già con Asteroid City era tornato a realizzare film pienamente convincenti, dall’impostazione autoriale e ispirata.

JoJo Rabbit, Piccole Donne, The Wonderland, un pacchetto di cose belle

Vi avverto: è un pacchetto di cose buone. Lo so, non capita spesso, ma capita. JoJo Rabbit (Taika Waititi 2019) era un titolo su cui nutrivo molte riserve, invece è uno dei migliori film dell’anno e fra i candidati all’Oscar, assieme a A Marriage Story. Scarlett Johansson, davvero brava in entrambe le pellicole, è un’attrice capace ed espressiva, quando è chiamata a fare film veri (mentre sembra più impacciata di altri colleghi in zavorre come Ghost in the Shell o i circhi Marvel). Sì, il film riprende colori, personaggi e visioni frontali à la Wes Anderson, e anche la rielaborazione faceta del nazismo non è nuova. Eppure JoJo riesce a essere abbastanza originale e soprattutto spontaneo, non è l’ennesima pellicola buttata lì.

È un film che va visto, un insieme di registri, personaggi e situazioni spesso sopra le righe ma non per questo privi di senso, un miscuglio di umanità che rende soprattutto assurda la mancanza della stessa. Bravi gli attori, ottimo il ritmo, c’è anche un pezzo di Tom Waits, molto bene. Tornando a Marriage Story, spunta fuori che assieme a JoJo mettono sul tavolo una sorta di rivincita del cinema indie, i cui canoni da qualche tempo sembravano usurati dalla ripetizione. In più, in un anno in cui molti grandi autori e molti presunti grandi film hanno, invece, una consistenza quasi effimera.

(4/5)

Anche Piccole Donne di Greta Gerwig (2019) può contare su ottime performance, in particolare su Saoirse Ronan, credo la migliore attrice della sua generazione: sembra sempre nata e cresciuta nei film che si trova ad abitare. E lo dicevo già ai tempi del pur brutto Amabili Resti.

Gerwig riesce a dirigere un classico contemporaneo: rispetta la storia, le dà un ritmo moderno, senza compromettere il suo essere un romanzo di formazione in costume. Un film solido e delicato, da cui traspare una reale passione per il soggetto che traspone, un bel lavoro.

(4/5)

Birthday Wonderland, o The Wonderland (Keiichi Hara 2019) mi sembra non abbia fatto molto parlare di sé, neanche negli spazi dei cultori del genere. Si tratta, invece, di uno dei migliori anime dei tempi recenti e, altra buona notizia, lo si può facilmente vedere su Prime Video. L’autore è quello di Miss Hokusai, quindi ambienti curati e figure realistiche, quasi imponenti rispetto alle stilizzazioni spesso offerte dall’animazione giapponese, e ancora momenti poetici ed evocativi, da ritrovare nella visione piena e personale che l’artista dà del mondo. Hanno in effetti questo in comune, i tre titoli di questo articolo: non sono completamente originali, guardano a testi, epoche, mezzi espressivi pre-esistenti, ma sanno rielaborare e riproporre mostrando la necessità della comunicazione e la volontà di farsi conoscere, di entrare in contatto con lo spettatore; in tre modi diversi, sono film intimi, con in primo piano vicende e caratteri femminili.

Birthday Wonderland è una favola dalla forte componente fantastica che prende moltissimo da Miyazaki e Takahata, in particolare nello sviluppo dei personaggi – che non devono mai apparire troppo definiti – e nell’amarezza dei riferimenti al reale. Un richiamo alla ferita atomica, quasi immancabile nei lavori nipponici, che però qui diventa volontà di rielaborazione e di rinascita. Una sovrapposizione simbolica che non riguarda più solamente la compresenza di bene e male nelle caratterizzazioni, ma anche la necessità di condividere il dolore per poterlo assorbire. Oltre questo, Birthday Wonderland richiama Alice, modello immancabile per i viaggi fantastici e di riconoscimento di sé, come La Bella e la Bestia e altri archetipi della fiaba a cavallo fra Oriente e Occidente. Alla piccola di casa (7 anni) è piaciuto molto, e anche ai suoi genitori.

(4/5)

Chiamami col Tuo Nome; Lady Bird; Borg McEnroe; I, Tonya; Voyage of Time

chiamami col tuo nome slowfilm recensione

– Cose di crescita e sentimenti

Questo approssimativo viaggio nelle visioni recenti si apre con Chiamami col tuo Nome – Call me by your Name (Luca Guadagnino 2017), arrivato finalmente anche alle sale italiane e candidato a quattro statuette dell’Academy, fra cui miglior film e, per Timothée Chalamet, migliore attore protagonista. Il film nasce da una sceneggiatura non originale di James Ivory (anche questa in gara), adattamento del romanzo omonimo di André Aciman. Nell’estate del 1983, da qualche parte nel nord Italia, Guadagnino tesse l’incontro fra il diciassettenne Elio e il ventiquattrenne Oliver, studente e ospite del padre di Elio nella sua assolata villa secentesca. Con ricordi di Bertolucci e Visconti, e l’eleganza dello stesso Ivory (e, qui come in A Bigger Splash, una tensione che ho associato al Mankiewicz di All’Improvviso l’Estate Scorsa), Guadagnino costruisce un racconto sentimentale che unisce attrazione fisica e intellettuale, mostra la scoperta di sé e dell’altro ricercando rapporti e sentimenti che, con differente registro, sembrano ispirarsi ai lavori del taiwanese Tsai Ming-liang (in particolare I don’t want to sleep alone e Vive l’amour, oggetto di una citazione diretta in chiusura). Io preferisco di certo lo sguardo silenzioso di Tsai a quello romantico e un po’ vezzoso di Guadagnino, ma questo fa parte di disposizioni soggettive. Quel che è evidente, fin dalle prime scene, è la capacità di raccontare una storia con calore, con uno sguardo artistico e partecipativo. Mi sono ritrovato a pensare che, tutto sommato, in pochi sanno farlo come gli autori del cinema italiano, che quando funziona mostra un’intimità che altre scuole hanno sacrificato a favore di meccanismi forse più spettacolari e coinvolgenti, ma a lungo andare più comuni. Quello di Guadagnino è un cinema che trova la sua modernità in un’intensità classica, la sua è una voce originale, che si sta affermando come una delle più rappresentative.

lady bird slowfilm recensione

Lady Bird (Greta Gerwig 2017) è appunto uno di quei film, anche gradevoli, che ricalcano un linguaggio molto diffuso, quello del cinema indie americano. L’opera prima da regista di Gerwig è assolutamente riuscita, come un buon film dell’amico Baumbach (Frances Ha, forse il suo migliore, ha proprio lei come protagonista e cosceneggiatrice). Riesce a non naufragare nelle parole o in altre tentazioni come le troppe musichette, il volersi mettere troppo in mostra, l’idea di aver rivoluzionato la settima arte con qualche trovata più o meno sopra le righe: tutti vizi di cui questo cinema è pieno. Con pesi diversi all’interno della storia, Lady Bird condivide con il film di Guadagnino, oltre a Timothée Chalamet, anche la scoperta della sessualità e del rapporto che intrattiene con i sentimenti, il ruolo fondamentale della comprensione e dell’amicizia nel restituire semplicità a qualcosa che, sotto pressione, rischia di diventare complessa. Molto brava Saoirse Ronan, che già brillava nel mezzo disastro Amabili Resti, il film ha forse il problema di risultare dimenticabile: pulito, ben fatto, ma a distanza di qualche giorno è in buona parte evaporato.

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– Cose di rabbia e sport

Borg McEnroe (Janus Metz Pedersen 2017) è una cosa abbastanza interessante, ma un po’ vecchia. Racconta un pezzo di storia dello sport nel modo più semplice possibile. Non è del tutto un male, conta su un buon materiale di partenza, opera delle ricostruzioni molto fedeli di scene di repertorio, ma, specialmente nel duello finale, si sente la mancanza di qualche guizzo di regia, di qualche scelta. Il modo stesso in cui vengono trattate le biografie non si distacca mai dalla storia principale, offrendo giusto qualche aneddoto di contorno. La narrazione è piuttosto sbilanciata verso Borg, mentre la cosa più interessante del soggetto è proprio nel modo opposto in cui ognuno dei due elabora una rabbia che, in principio, li rende estremamente simili.

I Tonya slowfilm recensione

Punta invece su una regia e una scrittura molto più presenti I, Tonya (Craig Gillespie 2017), che racconta un noto, confuso e controverso evento di cronaca legato allo spietato mondo del pattinaggio sul ghiaccio degli anni ’90. Impersonata da una notevole Margot Robbie, Tonya Harding vive nella periferia esistenziale e culturale degli Stati Uniti, ha una madre inqualificabile e spesso violenta, ed è circondata da imbecilli. Veloce, spesso divertente, il film di Gillespie potrebbe essere la naturale prosecuzione, e anche uno dei punti più alti, della così detta trilogia degli idioti dei Coen (che conta un buon Fratello dove Sei, ma anche un paio dei momenti più scialbi della carriera dei fratellini, Prima ti sposo poi ti rovino e Burn after reading). Gillespie trova un registro che nell’immediato toglie drammaticità agli eventi, senza però disinnescarli, ma portandoli fino all’autoriflessività dell’assurdo e riuscendo, nel complesso, in ciò che a Pedersen è sfuggito, cioè costruire un discorso più grande delle vicende da cui trae ispirazione.

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– Cose vecchie e mollicce

Terrence Malick, questo è un altro grosso passo falso, di peggio hai fatto solo To the Wonder. Voyage of Time fa parte di quei film, come il capolavoro di Ron Fricke Samsara, come l’apripista Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, che vogliono farci vedere tutto il mondo. Vogliono usare il cinema per darci davvero l’idea di quanto questo sia vasto, e incredibilmente affollato, e deserto, e meraviglioso, e decadente, e mutante. Terrence Malick, in quanto Terrence Malick in persona, aveva tutto il diritto di voler dire la sua, il suo è uno sguardo che racconta il mondo da quasi cinquant’anni. Ma lo ha fatto molto meglio con le sue scene sospese, all’interno di un flusso narrativo, che in questo lavoro interamente dedicato all’origine del tempo e della Terra. Concettualmente, il film è molto vicino alla parentesi cosmogonica di The Tree of Life; lì, però, la costruzione, anche nelle immagini astratte, era perfettamente riuscita, e trovava forza sia nell’integrazione in una storia, invece, umana e concreta, sia nella durata più limitata e nella bellezza del Lacrimosa di Zbigniew Preisner, parte essenziale di un grande momento di cinema. Voyage of Time, con la voce over di Cate Blanchett che invoca ripetutamente la Madre origine di tutto, è un susseguirsi di immagini spesso troppo didascaliche, o troppo documentaristiche, o troppo finte (sono molte le parti con ricostruzioni digitali), fa fatica a trovare un senso che non sia già stato detto molto meglio dallo stesso autore. Si parte da qualcosa che potrebbe somigliare a una rete neurale, forse l’immagine di un’intelligenza divina, da cui si creano universi, mondi, più nello specifico il nostro mondo, più specificamente ancora lava, oceani, trasformazioni, un viaggio nel tempo per disporre la nostra casuale esistenza sulla Terra. Il fascino di alcune immagini non si discute, pur concentrandosi, il nostro, su molte bestie viscide e mollicce, che strisciano o nuotano nei mari preistorici, e fra un’eruzione e un dinosauro pensieroso, la ricostruzione di Malick finisce per avvicinarsi troppo alle visioni televisive del National Geographic, coproduttore del progetto.

Chiamami col Tuo Nome 4/5

Lady Bird 3,5/5

Borg McEnroe 3/5

I, Tonya 4/5

Voyage of Time 2,5/5