The Box (Richard Kelly 2009)

Frank Langella, che una didascalia in apertura ci dà come resuscitato di fresco, si presenta a casa di Cameron Diaz & signore con una scatola di legno sormontata da un bottone, una valigetta contenente un milione di dollari, e mezza faccia perché l’altra metà gliel’ha tirata via un fulmine. Se entro ventiquattr’ore uno dei due premerà il bottone una persona che non conoscono morirà e loro potranno tenere il milione di dollari, in caso contrario nulla di fatto e amici come prima. 
 
Non ho amato particolarmente Donnie Darko e gli preferisco entrambi i film successivi. Richard Kelly, ad ogni modo, si sforza di fare film strani e questo è sicuramente un punto a suo favore. Spesso è eccessivo e contorto e neppure troppo raffinato, ma anche questi non sono necessariamente attributi negativi. Con The Box il regista recupera, rispetto a Southland Tales, una certa intelligibilità dell’intreccio e una più diplomatica temperanza nella scelta dei toni. Da questo sfoggio di autocontrollo e consapevolezza può derivare, specialmente nella prima mezz’ora, un richiamo ad atmosfere lynchiane. Incontri fra personaggi con tanto da nascondere, gli sguardi e le particolarità fisiche, invece, che sono lì a mostrare, a fare da tappezzeria acustica e letterale rispettivamente delle musiche distorte da circo dell’orrore e in parallelo della carta da parati anche meno gradevole. Mentre ricorda anche L’uomo senza Sonno la scelta di mostrare deformità in contesti improbabili, sotto una pressione allucinatoria.
 
Non ho mai rivisto un film di Kelly, ma ho l’impressione che stia covando e costruendo qualche buona ossessione, raccontando di film in film e senza mai entrare nel dettaglio di essenze ultraterrene fra il liquido e il gelatinoso che ci fanno viaggiare nel tempo e nello spazio, ci guidano, ci osservano e in particolar modo ci giudicano. 
 
Bisogna anche dire che The Box, rispetto a un buon incipit, non sempre riesce a mantenere la tensione, e la scelta di limitare l’accumulazione porta d’altra parte, come in Donnie Darko, a indulgere nella ripetizione. Anche la consolidata presa di posizione del regista/sceneggiatore di continuare a celarci l’identità dei “mandanti”, del principio sovrannaturale che tutto muove, se da un certo punto di vista accresce il mistero ed evita una spiegazione che qualunque Shyamalan sarebbe in grado di (de)scrivere, dall’altra comincia a sembrare un modo comodo per evitare di inventare una soluzione sufficientemente originale.
 
The Box è comunque un piccolo film certamente vulnerabile, ma che prova a non essere innocuo. Di questi tempi, c’è solo da ringraziare.

(3,5/5)

Categoria Residuale II

Alice non abita più quiAlice non Abita Più Qui (Martin Scorsese 1975). Uno Scorsese molto vicino alla commedia pura, incastrato fra Mean Streets e Taxy Driver. Ottimo ritmo in situazioni polverose nella prima parte, dove Ellen Burstyn, neovedova e aspirante cantante, gira per l’America col figlio e incrocia anche tipacci col volto imberbe di Keitel. Un po’ più seduta la storia con Kristofferson, dove la polvere va via, ma si costruisce anche l’atmosfera divertente che ispirerà il telefilm Alice. (3,5/5)

Holiday Dreaming (Fu-chan Hsu 2004). Avrebbe meritato maggiore approfondimento, ma è passato già un po’ da quando l’ho visto. Film Taiwanese, che al contrario dei coreani non deludono quasi mai. È un prodotto pensato anche per il mercato estero, e sono infatti evidenti i riferimenti al giapponese Kikujiro, capolavoro di un Kitano capace, allora, di affascinare la critica e contemporaneamente batter cassa anche in occidente. A legarlo ai compatrioti Tsai Ming Liang e Hou Hsiao Hsien, la dedizione al pianosequenza e il quadro fermo (tranne che per rari movimenti di macchina, ma legati solo a motivi pratici e non espressivi), ma un tono nel complesso molto più leggero, almeno fino alle soluzioni silenziosamente drammatiche e malinconiche. Film di viaggi, amori, amicizie e Pom Pokoscherzi giovanili, non unico ma bello. (3,5/5)

E ora due Ghibli. Pom Poko (Isao Takahata 1994). Il compare di Miyazaki è il colpevole autore di Una Tomba Per le Lucciole, una delle cose più straziantemente strazianti che sia dato vedere. Bellissimo, ovviamente. Pom Poko, dal nome che porta al fatto che ha per protagonisti procioni buffi e trasformisti impegnati in una campagna ecologista, lo si potrebbe scambiare per un film d’animazione leggero e fanciullesco, lineare e didattico. Non è così, è una cosa molto più grossa e complicata. I procioni sono sì buffi, ma da subito la storia accoglie anche delle vicende e un’immaginazione adulte,  in una commistione radicale di registri e messaggi. La forma-cartone è al servizio di un racconto complesso, e ha il vantaggio, rispetto ad un film “reale”, di concedere all’autore la massima libertà creativa. Anche se ricorsivo nell’intreccio (vari attacchi dei tanuki (i procioni di cui sopra) agli umani, e viceversa), Pom Poko offre esplosioni psichedeliche e orrorifiche strettamente legate alla mitologia e le leggende giapponesi, e brusche incursioni nel realismo, sempre con un’ottima animazione variabile nello stile e nel dettaglio. (4/5)

Southland TalesAl contrario, Il Sussurro del Cuore (Whisper of the Heart, Yoshifumi Kondo 1992), non ha nessun motivo per essere un film d’animazione e, a conti fatti, lo studio Ghibli ne ha fatti parecchi, di passi falsi. Scritto da Miyazaki, tratto da un manga, lo stile grafico ricorda parecchio quello di Hayao, ma è una noiosissima storiella romantica preoccupata di sottolineare tutte le sue banalità. Per la prima volta calza la definizione demenziale di “manga” data lustri fa da Farinotti e inserita nella recensione di Akira (!): “manga giapponesi, storie disegnate che hanno le caratteristiche delle soap-opera americane”. (2/5)

Infine, Southland Tales (Richard Kelly 2006). Che sia brutto non c’è dubbio. Però un brutto strano, con ogni tanto delle sequenze notevoli e una ricerca dell’immagine abbastanza costante. Film contorto e apocalittico, amplifica e seppellisce le smisurate ambizioni nello stare sempre sopra le righe, nel voler confondere il vacuo col solenne e viceversa. Per qualche motivo non mi sento di buttarlo via. (3/5)