A Bigger Splash (Luca Guadagnino 2015)

ABS_1sht_MainAltNew_Art1.inddÈ estate, regno dell’indolenza, volevo un buon film. A Bigger Splash: non avevo ancora visto niente di Luca Guadagnino, ma è uno che fa discutere. “Discutere” è anche una parola esagerata, è uno che fa parlare, chi vede film poi parla da solo, al massimo dice qualcosa a qualcun altro, poi fa finta di ascoltare cos’ha lui da dire. E se non è la sua stessa cosa, è irrimediabilmente sbagliata. Che bello il quadro di David Hockney, ordinato, desolato, silenzioso, esploso, luminoso. Di una luce uniforme e ingestibile, piana come le linee pulitissime del dipinto, inquietate dallo splash. Niente può andare storto, è tutto già perduto.

Come fai a non vedere un film con un titolo così, come puoi non aspettarti qualcosa di simile? Qualcuno di molto simile è Tilda Swinton. Aliena, perfetta, una figura che dal cinema ha imparato a rifiutare il tempo e la definizione delle forme. Il film di Guadagnino è ispirato a La Piscina, titolo del 1969 di Jacques Deray, e sceneggiato David Kajganich. Qualcosa, da qualche parte, è andata storta, chi l’ha visto lo sa. Prima di quel qualcosa, però, A Bigger Splash mantiene le sue promesse. Vita d’artisti in vacanza a Pantelleria, con Swinton rockstar afona per un’operazione alle corde vocali e un compagno bello e tenebroso. Poi arriva Ralph Fiennes con l’appena ritrovata figlia Dakota Johnson, e la superficie della piscina si scompone. Fiennes dà una grandissima prova di cagacazzismo, iperattivo produttore discografico dal ballo sgraziato e la lingua in movimento perpetuo. Poi succedono cose. Come un racconto di Sofia Coppola privato della sua ostentata inconsistenza, A Bigger Splash è un quadro che finge di rappresentare il vuoto, e al tempo stesso finge di voler andare in profondità, e in questo gioco trova un registro linguistico e registico singolare.

A Bigger Splash 1967 by David Hockney born 1937

Sulla parte finale, in maniera pressoché inspiegabile, sceglie una delle chiusure più stonate che sia dato vedere, con un Corrado Guzzanti condannato a una parte umiliante per l’insensatezza del suo personaggio. Io sono anche per dire: se un film inciampa negli ultimi 20 minuti fa’ finta di niente, conserva i primi 100. Qui, però, l’errore fa male, vista la costruzione fin lì coerente e l’importanza che tutte le parti hanno in un quadro finito. Ad ogni modo, volevo un buon film, poteva andare meglio, ma – cosa per niente scontata – ho avuto un film.

(3,5/5)