La Quinta Stagione (Peter Brosens, Jessica Woodworth 2012)

quinta stagione slowfilm recensioneFinalmente cinema.

In un paesino rurale delle Ardenne si vive seguendo i cicli della natura, si curano i campi, si fanno gare di canto fra galli, i ragazzi si inseguono e ritrovano nei boschi, richiamandosi simulando il verso degli uccelli. L’ultimo giorno d’inverno viene bruciato un fantoccio di vimini, per entrare nel un nuovo ciclo e salutare la primavera. Stavolta il rito non funziona, Zio Inverno non prende fuoco in nessun modo. Con questo presagio inizia una nuova stagione, che non è semplicemente una prosecuzione dell’inverno, durante la quinta stagione gli elementi – la terra, l’acqua – diventano sterili e si svuotano della vita.

La Quinta Stagione è un film di cui parlare sottovoce, bisogna osservare. Quella di Peter Brosens e Jessica Woodworth (autori belgi, che tornano in patria per quest’ultimo capitolo di una trilogia iniziata con Khadak e Altiplano, da recuperare al più presto) è un’opera che trova ispirazione da decine d’altre, accogliendone l’anima e lo sguardo in una forma nuova, in questo periodo poco frequentata e dunque necessaria. Geometrie di cemento spezzano le linee naturali e allo stesso tempo sono trasformate dalla terra e dagli alberi, come in Stalker di Tarkovskij. Gli uomini ricoprono una funzione prevalentemente simbolica, completano un proprio quadro mostrando caratteri abbozzati ed esasperati, come in un dipinto di Bruegel. Si mascherano e si confondono fra loro ricreando un nucleo primitivo e superstizioso, quando la folla torna al pensiero magico, pagano, alla paura dell’estraneo. La Quinta Stagione, ancora, richiama la comunità intimamente guasta de Il Nastro Bianco e gli spunti irreali di Bela Tarr – non è solo il paese a essere affetto dal morbo, anche se la narrazione ne fa l’epicentro, e i rari segni che arrivano dall’esterno suggeriscono un mondo sconosciuto.

La vita che gli uomini portano avanti ogni giorno nasconde la paura, la consapevolezza dell’isolamento, e quando si perde quanto si riteneva acquisito riaffiorano gli istinti violenti e irrazionali, che recidono legami e trovano sfogo nella mutua legittimazione della sopraffazione. I riti edulcorati e trasfigurati rivendicano una funzione reale, si spogliano del simbolismo per ritrovano la ferocia sacrificale.

La Quinta stagione è un film silenzioso e contemplativo attraversato da una pulsante vena d’inquietudine, fatto di immagini bellissime e ambigue, alcune cariche come carte dei tarocchi, unisce il rigore documentaristico ai giochi prospettici, i freddi campi lunghi ai primi piani colmi d’affezione. Quando si conclude ci si perde nei titoli di coda, con la testa piena di suggestioni e di domande, ma ancora lontana nel ricordo delle immagini; e dopo i titoli un’ultima scena, anche questa inspiegata.

(5/5)

17 pensieri su “La Quinta Stagione (Peter Brosens, Jessica Woodworth 2012)

  1. io non credevo che si potesse ancora fare cinema così. e quant’è dolce sbagliarsi.

    c’è tutto: ci sono giochi di parallasse che non rintracciano baricentri, così ogni cosa è sbilanciata da un lato o dall’altro. ci sono rimandi che invertono le voci da una scena all’altra e così se il gallo fred non canta, saranno alice e il ragazzo a mimare i suoni delle bestie. c’è una gregarietà necessaria agli uomini nel proprio incedere in processione (mi tornavano ricordi di de seta, jean rouch ma anche del recente frammartino sui romiti lucani), nelle proprie danze rituali, nei propri indici puntati contro l’untore straniero e la strega di turno. gregarietà che invece le bestie rifiutano, quando è imposta loro da allevamenti, da colture intensive – e quindi le vacche, le api – e così queste bestie, come gli anarchici musicanti di brema, fanno resistenza, qui però nel loro immobilismo, nel loro fuggire ogni azione e ogni produzione.
    l’immobilismo anche, che qui è l’unica cifra di innocenza: non si muove la natura nella sua orizzontalità (le uniche scene dove il vento scuote gli alberi son riprese dal basso verso l’alto, come a dire che solo la verticalità è dinamica), non si muove il piccolo in carrozzella. che forse è l’unico a saper stare nell’istante e dire sì alla terra, pur non potendola calpestare. e gli altri girano in tondo nel tempo ciclico, nell’eterno ritorno dell’uguale senza riuscire ad accoglierlo – così il papà di alice sul trattore. ché c’è tanto nietzsche qui, ben oltre la ormai abusata citazione sul caos e la stella danzante pronunciata dal papà filosofo prestato all’apicoltura.
    e alla fine non restano che struzzi; siamo tutti noi, che per quanto a pensare a certe cose possiamo spaventarci, torniamo poi sempre a mettere la testa sotto terra.

    sara

    p.s. ah, comunque pure io voglio lasciare la filosofia e darmi all’apicoltura! sperando di inseguire una sorte migliore.

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  2. Ho letto giusto qualche parola del tuo post e già so che è roba che mi piacerà (se c’è Tarkovskij, c’è tutto). Solo che qui da me non lo danno. È uno di quei casi in cui vai a controllare i film in sala e in mezzo secondo ti si smorza l’entusiasmo :-|

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  3. ciao sara. mi fa molto piacere che abbia già visto il film e anche a te sia piaciuto così tanto. e grazie per il bel commento. l’immagine del gallo sul tavolo e in parte anche la atmosfere hanno ricordato anche a me Le Quattro Volte, mentre non ho visto il film di angelopulos.

    jeff, in sala sarebbe passato a giugno, ma credo abbia avuto una distribuzione quasi nulla. adesso si trova comodamente online. sono sicuro che ti piacerà.

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  4. Deve essermi sfuggito mentre mangiavo e guardavo il film, ma dov’è che si capisce che la natura vuol far scontare all’uomo la sua avidità?
    Da quello che ho visto la natura si spegne e non risponde all’uomo ma senza che ci sia un motivo: l’unico forse è quello di rendere gli uomini indipendenti da essa in modo da renderli consapevoli di chi sono, ma è un assurdo perchè sappiamo che questa indipendenza è inconcepibile.
    Non vedo nessuno abusare del terreno contaminandolo. Allevare bestiame e fare apicoltura non è affatto usare la natura in modo esagerato: chi può mai pensare che l’uomo per rispettare la natura debba vivere come i primitivi? Forse solo la natura stessa, se potesse esprimersi, cosa che appunto si permette in questo film. Ma è solo un assurdo, un’ipotesi speculativa pessimista…

    Tra l’inizio e la fine c’è una differenza minima: si passa da una solitudine al limite della sopravvivenza, ad una praticamente mortale. I registi usano tutte le carte per creare un film troppo freddo e deprimente (dov’è l’umanità??): inquadrature fisse (o mosse minimamente), piani sequenza, totali, fotografia desaturata.. Le immagini non le trovo nè evocative o suggestive, nè contemplative. Tarkovskij non avrebbe mai privato di vita nemmeno un’immagine, qui invece si fa un uso costante di questa privazione. Del Tarko al massimo vedo la citazione dei caccia che si sentono passare due volte, presenti in Sacrificio come segno della fine del mondo che si sta compiendo anche altrove. In questo film però quei caccia sono solo una citazione che va colta perchè nessuno dei personaggi si preoccupa della stranezza del loro passaggio che resta appunto inspiegabile.

    Più che altro mi sembra un Bela Tarr che incontra Von Trier, e Malancholia non mi è piaciuto nemmeno un pò (sicuramente però più di questo film) :)

    Bah.. mi sono ricordato di Essential Killing.

    ciao

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  5. ma la cosa dello scontare l’avidità l’avrei detta io?

    sulla sostanza delle immagini, c’è poco da discutere. a me sono sembrate evocative, e costruite con una cura molto poco frequente e anche dotate di una certa originalità. forse è proprio quella originalità che tu vedi come una mancanza di vita, ma essendo quello il nodo del racconto, la sopravvenuta sterilità degli elementi, non riesco a vedere questa connotazione come negativa. la vita è prerogativa dei due giovani protagonisti, ad esempio nella scena del bacio, e si spegne gradualmente lasciando lo sguardo di Aurelia Poirier, che ho trovato bravissima. Tarkovskij in stalker fonde geometrie artificiali con elementi naturali, spesso rendendo alieni anche questi ultimi, e creando un ambiente peculiare che non mi sembra così fuori luogo richiamare in questa occasione. nel film di tarkovskij quanto nel libro picnic sul ciglio della strada gli elementi hanno perso la loro natura originaria, e nella quinta stagione la terra si può toccare, gli alberi sono ancora mossi dal vento, ma tutto è, di nuovo, privo di vita.

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  6. Effettivamente non l’hai scritta tu ma l’ho letta altrove e anche sara nel commento dice qualcosa a riguardo. I registi affermano che “l’ispirazione ci è arrivata proprio dall’osservazione di quanto accade oggi, come la reale scomparsa delle api ovunque nel mondo, l’abuso di fertilizzanti tossici, la crisi del latte.”

    Si, succede a tutti di non apprezzare un film proprio perchè quella sua caratteristica particolare manca (per chi lo vede) di fascino. La sterilità (che per me non sopravviene nel film ma che è nel film dall’inizio alla fine quasi identica a se stessa) in questo caso potrei vederla come affascinante perchè rappresentata in modo assoluto, ma per un motivo che non so spiegarti non scatta la scintilla. Sarà che penso che non si può mostrare un nero puro se non mi metti anche un punto bianco all’interno, e in questo film l’amore tra i due ragazzi non lo vedo come qualcosa di vitale ma già come qualcosa di profondamente spento: se i due si sfiorano le labbra è perchè si illudono di amarsi, in realtà sono già profondamente soli e della Natura non mi sembra che ne facciano realmente parte. Si scambiano richiami vocali imitando gli uccelli, appoggiano ad un masso le orecchie e via dicendo, ma con la Natura non c’è nessuna capacità di interazione.
    La ragazza è brava, si. L’apicoltore e il figlio ce l’hanno scritto in faccia che subiranno una punizione sociale.
    Se non mi è piaciuto penso sia perchè è un film per me troppo minimale. Come dire, se all’inizio c’è un sentimento tra due ragazzi che quantifichiamo come 0,5, alla fine lo stesso è 0,0 :) Questo cambiamento insomma lo percepisco a stento.

    Lo stesso vale per le immagini che dici esercitano una suggestione: io invece le considero prive di profondità (i cieli sono muri scenografici), a stento c’è un contatto affettivo con gli elementi naturali, e in sostanza mi dicono “tutto quello che puoi vedere e osservare è in questa immagine, non c’è altro al di fuori”. Dentro è tutto morto, il fuori non esiste, se hanno preso ispirazione da Tarkovskij l’hanno fatto declinandolo però al nichilismo.
    La tua interpretazione delle geometrie artificiali tra gli elementi naturali in Stalker e qui la vedo diversamente.

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  7. no, non mi sembra che qui nessuno abbia dato un’interpretazione così punitiva. se stiamo a guardare altrove, ho letto in alcune recensioni che il film parlerebbe di un prolungarsi indefinito dell’inverno, ma probabilmente sono scritte da chi il film non l’ha visto, quindi è meglio rimanere nei testi che sono qui. personalmente credo che la quinta stagione tratti soprattutto della fragilità delle strutture sociali e della facilità con cui l’uomo è disposto a tornare a un pensiero magico e ad un’azione improntata alla violenza aperta e alla sopraffazione, appena le suddette strutture non assicurano più i vantaggi per cui sono stare accettate.

    per il resto, io non ho alcun problema con i film chiusi, cupi, negativi, come mi sembra non ce l’abbiano tarr né haneke. così come non mi infastidiscono (anzi) i quadri fissi, che credo siano ancora un mezzo per fare cinema significativo. l’ambiente del film è grigio e opprimente fin dalla prima inquadratura, è vero, anche perché è proprio la fine dell’inverno che si vorrebbe salutare. in seguito tutto crolla, ma si parte già da un equilibrio fragile, certo non da una realtà edenica. e i cieli muri scenografici, per tutta la prima parte mi sono chiesto se non fossero davvero fondali dipinti, e li ho trovati geniali. si vive in una scatola, in una “zona” con tanto di leggi imprevedibili.

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  9. così, un dettaglio dalla cronaca di un viaggio: ieri, gironzolando tra i musei di bruxelles, ho scoperto che ‘la cinquième saison’ è il titolo di un quadro di magritte. tu o la sapevi già o dirai a ragione ‘esticazzi!’ :)
    baci
    sara

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  10. no, non lo sapevo. ci sta.
    invece io ho visto khadak e altiplano. il primo è bello e poco più, mentre altiplano è al livello di la quinta stagione, e ancora più disturbato da incursioni surrealiste.

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