Dune 2 (Denis Villeneuve 2023)

Con Dune 2 Denis Villeneuve completa la trasposizione del primo romanzo del ciclo iniziato da Frank Herbert nel 1965, con l’intenzione, dichiarata da tempo, di concludere una trilogia filmica con l’adattamento del secondo libro, Messia di Dune, pubblicato nel 1969.

Dune 2 funziona, e presenta, rispetto al primo film, una maggiore commistione della storia con le caratteristiche registiche dell’autore: Villeneuve porta modifiche più evidenti all’intreccio, anche semplificandolo, rendendolo più cinematografico e, presumibilmente, preparandolo a una compiuta definizione con il terzo atto. Dune 2 è un film che sa essere feroce, nella definizione dei personaggi e del loro destino (delle molteplici sfumature che l’idea di destino assume di volta in volta nel racconto), vestito di quella forza visiva rigorosa e immaginifica assieme, che è la cifra del resista canadese. A supportarlo, la fotografia di Greig Fraser e le musiche di Hans Zimmer, sempre molto presenti, ma stavolta meno pompose e più al servizio delle immagini, e talvolta disposte a farsi da parte per lasciare ascoltare il silenzio del deserto o i suoni netti degli scontri. Trovano così spazio scene di grande impatto, come quella iniziale, dalle forti dominanti rosse e le linee espressioniste, o il bianco e nero fantasmatico dell’azione sul pianeta Giedi Prime. Un rigore che ricorda quello di Sicario, carico di tensione e capace di valorizzare le sospensioni narrative per dare spazio all’immagine.

Villeneuve, come detto, si prende alcune libertà, e attraverso queste scelte, essenziali da compiere per realizzare un buon adattamento (che non può mai essere un calco del materiale di partenza), riesce a interpretare le caratteristiche fondamentali del libro. Quella di Dune rimane una storia che riguarda le masse, i popoli, i mondi, prima degli individui, è una fantascienza etnologica in cui le parti rispecchiano sia le diverse popolazioni del nostro pianeta, sia le distinte pulsioni dell’essere umano. Un’ottica così ampia, per funzionare, evita di concentrarsi sui singoli personaggi e anche sul personaggio principale (scelta non facile per un titolo mainstream), che subisce la propria investitura, imposta esternamente da quelle stesse masse. In questo si riporta fedelmente il messaggio di Herbert, che non ha mai voluto presentare il suo messia come una promessa o una salvezza, quanto come una tentazione.

(4,5/5)

Tutto quello che ho visto degli Oscar 2024

Di molti film, anche buoni, visti negli ultimi mesi non ho appuntato niente, l’Oscar offre l’occasione per recuperare qualcosa. Cominciando dal Miglior Film, Oppenheimer parte come favorito ma non è di certo il mio favorito. Nolan racconta di questo mondo assurdo dove, qualsiasi cosa stia facendo, c’è almeno un quartetto d’archi a commentare straziato le tue azioni. Più spesso, c’è un’intera orchestra in crescendo drammatico a seguirti mentre ti versi il caffè o compili la lista della spesa. Tutta questa tensione, inevitabilmente, porta i Paesi verso la corsa all’atomica. Nolan continua a fare grossi film che non mi cambiano la vita, e in questo caso non sceglie né di romanzare la storia, come fanno classicamente gli americani, né di provare una struttura in qualche modo sorprendente. C’è la messa in scena di una serie di eventi, un po’ mescolati, un po’ decolorati, molto, troppo dialogati, e al centro un assurdo, forse un po’ morboso, striptease della bomba (2,5/5).

Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, Anatomia di una caduta di Justine Triet, Povere creature! di Yorgos Lanthimos e La zona d’interesse di Jonathan Glazer, di cui si è già detto, sono tutti ottimi film, e non è affatto poco. Lanthimos con Poor Things procede sul percorso di “normalizzazione” intrapreso con La Favorita, ma preferisco questo al tentativo di ripetere le intuizioni più radicali dei suoi primi lavori. Di Povere Creature si è detto molto, il film è interessante e bello da vedere, Emma Stone è l’ottima protagonista di un’opera che richiama la meraviglia di Melies e Lang, le vedute dell’inferno di Bosch, ci mette ironia, crescita e acquisizione della consapevolezza. Povere Creature richiama, capovolgendoli, i temi di Dogtooth, con una protagonista estranea ai vincoli sociali che sperimenta una progressiva acquisizione della conoscenza, anche lessicale, che invece nel film del 2009 viene negata o manipolata. Oltre a Stone, meno appariscente ma bravo Mark Ruffalo nell’incarnare una realistica e altrettanto preziosa caricatura maschile (4/5). Scorsese, dopo le delusioni di Silence e The Irishmen, torna con un filmone, Killers of the Flower Moon, epico e cattivo, fatto di personaggi orribili e monumentali (perfetti De Niro e DiCaprio), capaci di ingannare perfettamente anche loro stessi (4/5). A portare sullo schermo l’ambiguità e l’incertezza c’è anche Anatomia di una caduta, un film affasciante, compatto, rigoroso, sulla fragilità della realtà, con al centro una splendida Sandra Hüller, quest’anno anche in Zone of Interest (4/5).

American Fiction di Cord Jefferson è quel che si suol dire un film carino. Parte bene ironizzando sull’incapacità contemporanea di contestualizzare parole e pensieri nei tempi e nei luoghi in cui hanno avuto origine, nel suo svolgersi conserva il tema integrandolo con l’appiattimento verso rassicuranti luoghi comuni che fa la fortuna di molti autori (scrittori, in questo racconto). Si perde, però, in una specie di commedia degli equivoci, e alla fine si pone come un film gradevole, ma non particolarmente incisivo e inutilmente sospeso (3/5). Past Lives di Celine Song è un film molto romantico, nostalgico, sentimentale, ce lo dice fin dalla prima inquadratura e lo ripete in continuazione. Parla di vite possibili, incroci statistici e coincidenze perdute, ma si dimentica di costruire i suoi personaggi. Nonostante il suo successo, mi è quindi sembrato un film teorico e senza guizzi, un film sul destino o sulla sua mancanza, con più di uno sguardo a Wong Kar-wai, che non suscita interesse reale nella destinazione dei suoi piattissimi protagonisti, che si limitano a enunciare soltanto le caratteristiche che li renderebbero esseri umani, oltre che le parti di un film a tesi (2,5/5). Di Barbie mi sento di dire solo che dalla coppia Gerwig Baumbach mi aspettavo decisamente di più. Prima dell’uscita del film pensavo a come sarebbe difficile scrivere una sceneggiatura realmente interessante su un prodotto come Barbie, e infatti non lo hanno fatto, hanno titillato gli istinti più elementari di una sorta di femminismo glam e instagrammabile, portandolo nei canoni più risaputi della commedia demenziale americana. Peccato. (2,5/5).

Anche nella categoria Miglior Film Internazionale molti titoli interessanti: Perfect Days, un Wenders in formissima che anche da noi hanno visto in tanti, dimostrando che fare cinema vero può pagare, ancora la Zona di Interesse di Glazer, e Io Capitano di Matteo Garrone, un’odissea che forse non è il suo film più sorprendente (per molti versi credo Garrone sia il nostro regista più bravo), ma un film importante e necessario (3,5/5).

Infine il Miglior Film d’Animazione, categoria potenzialmente interessantissima ma quasi sempre schiacciata su posizioni statunitensi e più precisamente disneyane. Questo potrebbe essere però l’anno della seconda, strameritata statuetta ad Hayao Miyazaki, dopo La Città Incantata del 2003, con il visionario Il Ragazzo e l’Airone. Gli altri titoli sono il Pixar (Disney) Elemental (3/5), un po’ confuso e non proprio memorabile, ma comunque migliore specialmente delle ultime prove a marchio puramente Disney, Nimona e Spider-Man: Across the Spider-Verse. Nimona è un cartone molto Netflix, fatto di tratti stilizzati, montaggio veloce e messaggi inclusivi condivisibili quanto veicolati in modo didascalico (3/5), mentre Spider-Man è uno straordinario esempio di avanguardia superammiccante. Nell’ennesima variazione sul tema degli universi paralleli, la storia è terribilmente maltrattata, una sovrapposizione di momenti che riprendono altre storie, ne mescolano i topoi senza portare a compimento o alla maturità nessuna narrazione. Dal punto di vista estetico e cinetico riprende varie correnti sperimentali ampiamente sperimentate, specialmente nell’animazione, portate in un montaggio epilettico, così costantemente frammentario e ultraveloce da non avere ritmo (2,5/5).

Update: ho dimenticato, in questo appello, La Meravigliosa Storia di Henry Sugar, cortometraggio (ma di 40′) di Wes Anderson e oggi prima statuetta per il regista. I quattro corti che Anderson ha tratto da scritti poco noti di Dahl sono su Netflix e sono abbastanza sorprendenti. Sia per la versione matura dello scrittore che offre uno straordinario punto di partenza, sia per quello che mi sembra sia un nuovo periodo d’oro del regista. Henry Sugar unisce l’impostazione teatrale e l’estetica consolidata di Anderson, che già con Asteroid City era tornato a realizzare film pienamente convincenti, dall’impostazione autoriale e ispirata.

Il Ragazzo e l’Airone (Hayao Miyazaki 2023)

Il cinema di Miyazaki racconta un mondo che respira, a volte in maniera visibile e accentuata, un mondo in cui gli elementi o i personaggi sono attraversati da una forza o dalle sensazioni, fino a modificare i loro tratti. Come quando Kiki vola per la prima volta, e i capelli le si alzano sulla testa, come il fremito che attraversa Chihiro ne La Città Incantata, quando calpesta il verme liberato dal sigillo, come Totoro quando sente le gocce di pioggia cadere sull’ombrello, e come la terra scossa dal terremoto in Si Alza il Vento e il mare vivente e in burrasca di Ponyo.

Ne Il Ragazzo e l’Airone questa sensazione è costante, è un brivido che attraversa l’intero racconto ed è il vero soggetto del film, che presentare una forma caotica e incompleta, e che in quella forma trova proprio il suo compimento. L’ultimo lungometraggio di Hayao Miyazaki è sì uno sguardo su tutta la sua produzione, ma è uno sguardo che trova la sua unicità nel lasciarsi completamente trasportare, creando un mondo, onirico come non mai, che respira non solo per il suo protagonista, ma per mostrare l’intero ciclo dell’esistenza. Dopo una prima parte di estrema bellezza cinematografica e realistica, è un percorso dantesco quello seguito da Mahito, attraverso un mondo in cui non si può restare, ma di cui bisogna comprendere l’esistenza, perché questa consapevolezza possa rendere sopportabile la realtà.

Il mondo fantastico di Mahito è guidato da istinti strettamente naturali, non arginati da regole e sovrastrutture culturali. Mahito vedrà come sono le esistenze prima di cominciare a esistere e vedrà i loro predatori, vedrà il caos da cui proveniamo, in cui nasciamo prima di nascere, che pensiamo da adulti di poter controllare, e comprenderà come questo, invece, non sia possibile. Non c’è il percorso di crescita graduale di Chihiro, ma la consapevolezza di vivere all’interno di una sorta di disequilibrio cosmico, un amalgama fra tempi ed esperienze diverse di esistenze diverse.

In una dimensione in cui ogni pelle sta stretta, in cui le figure eccedono i propri confini e mutano in continuazione, si parla di accettazione, ma non solo di accettazione della perdita. Miyazaki considera l’accettazione in senso totale, nel comprendere di doversi muovere all’interno di qualcosa che non si può padroneggiare e che non è mossa da uno scopo o un senso morale, né tantomeno da una tensione all’ordine. In un susseguirsi di immagini artigianali e meravigliose, attraversate dal fremito della vita e della morte, Il Ragazzo e l’Airone invita ad accettare la caotica bellezza del disequilibrio.

(4,5/5)

Perfect Days (Wim Wenders 2023)

Esce oggi nei cinema Perfect Days, uno dei film più belli di Wim Wenders e, di conseguenza, uno dei film più belli degli ultimi anni. Uno sguardo poetico e minimalista segue le giornate di un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. Intanto incontra persone vecchie e nuove, diverse storie si dipanano e si intrecciano in modo naturale, il tutto su una colonna sonora, famosissimi pezzi anni 60 e 70 rigorosamente su audiocassetta, scelta da un protagonista incapace di rinunciare alla bellezza e al coinvolgimento, e quindi di vivere in un modo in cui il mondo sarebbe più pronto ad accettarlo. C’è Jarmusch, che d’altra parte in Wenders ha avuto un maestro, c’è il cinema classico di Ozu, c’è un finale intenso quanto quello di Tsai Ming-liang in Vive l’Amour, per anni riproposto Fuori Orario da Enrico Ghezzi. Un film ormai vecchio stile, che fanno praticamente solo i vecchi maestri, che mostra come il cinema possa disegnare la vita, e per una volta non credo di essere riuscito a trattenere una lacrima.

(5/5)

The Killer (David Fincher 2023)

David Fincher, lo dico da non fincheriano, ha fatto un buon film, da vedere. The Killer sta dalle parti del Jarmusch di Ghost Dog e The Limits of Control, del Mann di Blackhat e Collateral, ricordando anche la vena orientale che hanno esplicitamente mostrato entrambi, in alcuni dei loro lavori. Ma sta dalla parte di molti, da quella di Ferrara, Melville e tanti altri, perché The Killer rispetta pienamente il genere, in maniera classica e confortevole. È un lavoro non stupefacente ma solido, che si distingue dalle serie tv, riavvicinandoci al cinema.

Regole di condotta e operazioni sistematiche di eliminazione e vendetta sono al centro del lavoro di Michael Fassbender, attore che in un certo periodo trovavo ovunque ma da un po’ non incrociavo, che mi ha fatto piacere ritrovare. Fincher gestisce i tempi senza affrettare le inquadrature, sceglie un commento sonoro presente ma non invadente, descrive spazi spesso lussuosi e impersonali, che il killer abita e manomette per i suoi scopi. Il suo lavoro è ripetizione, come il cinema è ripetizione. La ripetizione di rituali più o meno efficaci, la ripetizione infinita di tempi e azioni definite, il presente che attualizza ancora gli stessi ricordi, trasformandoli di nuovo in esperienze.

Si può vedere su Netflix.
(3,5/5)

Il Sol dell’Avvenire (2023) Nanni Moretti nel segno di una resa invincibile

Bello Il Sol dell’Avvenire, avrei preferito saperne di meno da trailer e interviste, che hanno anticipato quasi tutte le scene chiave (il film è breve, non sono poi molte), ma mi è piaciuto, senza aggiungere niente di sorprendente, e forse anche per questo. Sono contento che Bianca abbia visto al cinema il Moretti più morettiano (ma a me piacciono anche quasi tutti i suoi ultimi film), anche perché ti porta per mano, quindi da questo punto di vista è stato il film perfetto. Molto felliniano, con una curiosa convergenza proprio verso il pulp e violento Tarantino, che negli ultimi anni si è messo a raddrizzare la storia uccidendo Hitler e salvando Sharon Tate.

Nanni, come sempre, porta in scena sé stesso, Giovanni, mostra il risultato dello scorrere del tempo. Scandisce lentamente le battute rigorosamente non improvvisate, prova a tenere il tempo battendo le mani e non sempre ci riesce, spazia fra i ricordi e le possibilità sfuggite. Al suo fianco una Margherita Buy decisamente in bolla, molto spontanea e con gli occhi meno sgranati del solito, deve aver trovato la giusta combinazione di antidepressivi e sonniferi.

Il Sol dell’Avvenire non è propriamente un film nostalgico, perché rimpiange tempi che non abbiamo mai vissuto, il discorso è sempre quello del sentirsi scollati dalla maggioranza, della felicità mancata per istinto, e riguarda il cinema in sé almeno quanto il discorso politico e sociale. Moretti, sapendosi già sconfitto, parla di un cinema che non ha bisogno dell’artificio dell’evoluzione dei personaggi, un cinema estremamente personale, e trova la sua (auto)ironia nel proporre come naturale una visione enormemente minoritaria e poco remunerativa. Un cinema come sospensione e mondo a sé, con le canzoni che irrompono per fare la scena e non per commentarla, e i frammenti di storie che esistono solo perché il regista, come Cyrano, possa guidarle. È il racconto di un potere magico, sentimentale, fragile, con la consapevolezza che di questo potere non freghi un cazzo più o meno a nessuno.

Credo sia, fra l’altro, un film bello da vedere. Come per Allen, questo è un aspetto che per il tipo di film, che mette in primo piano la parola, si tende a non notare, mentre Il Sol dell’Avvenire ha una costruzione molto pulita ed elegante, romantica senza essere virtuosistica o troppo appariscente.
(4/5)

Un attimo prima l’Oscar per il miglior film 2023

Riprendendo un’antica tradizione, ecco il quadro sugli Oscar, in particolare quello per il Miglior film, che sarà assegnato fra qualche ora. Di ben 10 candidati ne ho visti 7, manca nell’archivio qualche parola su alcuni titoli, eccole. Avatar 2: non mi è dispiaciuto vederlo al cinema, sostanzialmente è stato come portare Bianca al parco giochi, ma è una cosa che unisce la massima espressione tecnologica con qualcosa di molto vicino al grado zero del cinema. Se il primo Avatar, che avevamo (ri)visto pochi giorni prima, è semplice ma ha un suo respiro epico, qui si inseguono una serie di episodi minori prolungati a dismisura, alternati a sequenze puramente descrittive che sembrano voler ignorare la differenza di senso fra l’immersione nella computer grafica e quella che, ad esempio, pratica Terrence Malick nel reale. (2,5/5)

Ho visto Top Gun: Maverick curioso di scoprire come un film come Top Gun (1986), fatto di una retorica e un’autoglorificazione oggi certamente fuori qualsiasi tempo massimo, fosse stato rivoluzionato tanto da incassare quasi un miliardo e mezzo di dollari. Niente, l’hanno lasciato uguale. Terribile, e che qualcuno possa aver pensato di dargli un premio come miglior film dell’anno lo è di più. (2/5)

The Fabelmans devo dire, da non fanatico di Spielberg, che non è affatto male. Mi aspettavo una corazzata piena di occhi che si sgranano per la magia della settima arte, invece è tutto sommato un piccolo film, dedicato alla definizione del fare cinema come un’esigenza che cresce nel quotidiano, lo stravolge, e al tempo stesso ne offre una preziosa chiave di lettura. Un piccolo film rinforzato dalla solida eleganza dello sguardo ampio, dei movimenti di macchina, del racconto definito, del calore della pellicola. Un’impostazione che riprende il linguaggio della New Hollywood, che oggi appare molto più vicino al cinema classico che alla serializzazione e dematerializzazione contemporanea. Il discorso centrale è riassunto dall’incontro con lo zio Boris, che descrive un inevitabile conflitto fra arte e famiglia, ovvero fra l’arte e scelte di vita più convenzionali. Con il protagonista costretto a contrattare la credibilità delle sue aspirazioni con il padre, ingegnere elettronico che intanto contribuisce decisamente allo sviluppo dell’informatica, è curioso pensare come sarà proprio il lavoro del genitore a rivoluzionare il campo d’azione del figlio, privando il cinema di quel legame con la realtà che per decenni è stato uno dei suoi tratti dominanti, nella pratica quanto nella speculazione teorica. Da citare David Lynch nei panni mitologici di John Ford, a fissare la fascinazione per un cinema fatto di orizzonti messi al posto giusto, un cinema emozionato e concreto, classico. (3,5/5)

Sugli altri titoli si trova attraverso gli agili link. Ci sono altri due film davvero buoni, Everything Everywhere All at Once e Gli spiriti dell’isola, e tifo fortemente per quest’ultimo, uno dei più belli e fatti meglio che ultimamente sia riuscito a vedere.

I candidati all’Oscar 2023 per il miglior film:

Avatar – La via dell’acqua (Avatar: The Way of Water), James Cameron
Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin), Martin McDonagh
Elvis, Baz Luhrmann
Everything Everywhere All at Once, Daniel Kwan e Daniel Scheinert
Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues), Edward Berger
The Fabelmans, Steven Spielberg
Tár, Todd Field
Top Gun: Maverick, Joseph Kosinski
Triangle of Sadness, Ruben Östlund
Women Talking – Il diritto di scegliere (Women Talking), Sarah Polley

Babylon (Damien Chazelle 2022), Triangle of Sadness (Ruben Östlund 2022)

Non mi è simpatico Chazelle, e Babylon è forse il suo film peggiore. In più di tre ore produce una valanga di virtuosismi, più o meno riusciti, che sembrano avere molto più a che fare con l’amore per sé che con quello per il cinema. Come cosa migliore ricordo una lunga discesa negli inferi, una parentesi grottesca all’interno di un intreccio che, per il resto, si produce solo in un’ambiziosa messa in scena del caos. Elemento peggiore, l’evidente mancanza di umorismo o ironia, che in un film che vuole essere sempre sopra le righe si riflette in una serie di gag fisiche piuttosto scadenti. Insomma Damien sembra essersi avventurato in un’operazione ampiamente al di sopra della sua portata, guardando, fra gli altri, a un modello come The Wolf of Wall Street ma rimanendo in superficie, senza capire cosa renda quello un grande film. (2,5/5)

Östlund non è uno che va per il sottile, ma il suo modo diretto ed esplicito di fare cinema a tesi sembra essere molto apprezzato, dal momento che ha vinto due volte la Palma d’oro, prima con The Square (2017) e poi con questo Triangle of Sadness. In fondo lui non mi dispiace, The Square credo rimanga il suo film migliore, mentre Forza Maggiore (2014), che punta il dito contro l’intransigenza verso l’altro che si accompagna a un’infinita autoindulgenza, ha un’ottima prima parte, ma si risolve in un didascalismo davvero spinto. Triangle è un po’ una via di mezzo, cioè prende da The Square la critica all’opulenza decadente dell’alta borghesia, ma vuole essere così sicuro di fare centro ed essere incisivo da cadere nell’esibizionismo. Tra rigurgiti alla Monty Python, fiumi di merda e citazioni marxiste corredate da note bibliografiche, Östlund, come Chazelle, tradisce una notevole vanità, ma il suo film rimane comunque un po’ più solido, vario e divertente. (3,5/5)

Tár (Todd Field 2022) e Men (Alex Garland 2022), due film molto diversi con un’impostazione comune

Tár (Todd Field 2022) e Men (Alex Garland 2022) sono due film molto diversi, con una cosa in comune: sono film “d’autore” costruiti su delle tesi, degli enunciati, che rimangono a un livello di elaborazione molto elementare, mentre l’aspirazione autoriale carica tutto di scelte formali, espressive, visive, ricercatamente complesse.

Tár  ruota attorno all’impeccabile Cate Blanchett, ammirata e riverita direttrice d’orchestra, di cui gradualmente si scopre il ruolo di predatrice sessuale e la tendenza agli abusi di potere.

Field adotta un registro solido e austero, fatto di ambienti solenni e tecnicismi musicali, esalta la determinazione e il magnetismo della sua protagonista. Fin quando non arriva il momento di metterla alle corde, poiché compito del film, anticipato da un confronto fa Maestro e allievo, è dimostrare che il lavoro, l’opera di una persona meschina non può essere separata dalla figura del suo autore. A quel punto la volontà di far risaltare le colpe di Lydia Tár è così forte che sembra di guardare un altro film, con al centro un personaggio inerme, la cui parabola si chiude in modo (forzatamente) farsesco.

Anche Men, come tutte le opere di Garland, è un film attento ai dettagli e alle atmosfere, qui al servizio di un thriller psicologico dai risvolti horror con protagonista una Jessie Buckley, Harper Marlowe, non lontanissima dal personaggio interpretato nell’ottimo Sto Pensando di Finirla Qui.

L’impianto costruisce l’incubo immergendo Harper nei suoi ricordi cupi e in un presente in cui è circondata da uomini che la colpevolizzano, la minacciano emotivamente e fisicamente, provano a ridimensionarla fino a renderla un oggetto, o un semplice organo, al servizio delle loro necessità. Garland riempie il film di simboli ancestrali (alcuni decisamente abusati), suoni e situazioni inquietanti, prova a rendere ambigue le sue visioni, ma rimane evidente come l’interesse fondante sia rendere ineludibile il suo messaggio. Il regista mette letteralmente in scena la vera e propria autogenerazione del privilegio e della tossicità maschile, perpetrati attraverso secoli o millenni di violenza, ricatti, manipolazioni e giustificati da una incondizionata solidarietà di genere. Men è un film che vuole lasciare in sospeso alcune suggestioni, ma, anche in questo caso, il tema non riesce a essere arricchito dall’ambiziosa rappresentazione, che rimane su un piano distinto, e il famoso “messaggio” non acquista, di per sé, grande complessità.

Tár ha diverse candidature all’Oscar, fra cui quella per miglior film; visti sette dei dieci titoli che compongono la rosa, Gli Spiriti dell’Isola rimane decisamente il mio preferito. Da Garland, dopo Devs, che credo sia una delle migliori serie recenti, mi aspettavo qualcosa in più.

Tár: 3,5/5

Men: 3/5

The Menu, Aftersun, Gli Spiriti dell’Isola, Le Vele Scarlatte, Everything Everywhere All at Once, Pinocchio, Makanai, Copenhagen Cowboy

The Menu (Mark Mylod 2022) è un piccolo film, veloce, ben recitato. Un po’ di mistery alla Agatha Christie, con le forti caratterizzazioni dei personaggi, e di critica alla The Square, non raffinatissima ma d’effetto, su come l’eccesso (di ricchezza, di successo, di vanità) possa privare le persone di uno scopo. Un impianto teatrale con sprazzi di Grand Guignol, dove Anya Taylor-Joy, Ralph Fiennes e Nicholas Hoult si muovono con disinvoltura. Su Prime. (3,5/5)

Aftersun (2022) è il film d’esordio della scozzese Charlotte Wells, e ha molto del cinema silenzioso, meditativo, portato avanti con pochi mezzi, che si trova nella produzione giovanile e indipendente più o meno di ogni parte del mondo. Tolta l’aura sovrannaturale data dalla ricchezza, Aftersun ha molto in comune anche con Somewhere di Sofia Coppola, compresi dettagli come il braccio fasciato del protagonista e le riprese in piscina. Aftersun è l’estate di un padre con la figlia undicenne, le scoperte, le situazioni malinconiche, lo sguardo distaccato sugli ambienti e gli spazi che si alterna ad immagini sgranate, filtrate dalla memoria di una videocamera. Tutto in Aftersun, che è un buon film, sincero, sa di nostalgia e rimpianto. Candidatura all’Oscar per Paul Mescal. Si vede su Mubi. (3,5/5)

Gli Spiriti dell’Isola – The Banshees of Inisherin (2022) doloroso, rigoroso, diretto e recitato davvero bene, è il primo film di Martin McDonagh che mi abbia convinto a pieno. Nonostante la brevità di questi appunti, vorrei passasse l’idea che si tratta di un filmone, come ormai ne fanno pochi. 1923: in una sperdutissima isola irlandese, mentre da lontano arrivano echi della guerra civile, due (ex) amici alimentano fra loro un conflitto sempre più aspro e insensato. Con una scrittura di una precisione commovente, McDonagh non descrive le differenze fra i due, ma le vicinanze, e in questo modo racconta l’autolesionismo della guerra con grande efficacia. Sullo sfondo, una strega shakespeariana sottolinea l’ineluttabilità di ogni cosa. Niente è forzato o gratuito, i tempi e gli spazi sono gestiti alla perfezione, e Colin Farrell e Brendan Gleeson sono qui dei giganti. Ha ricevuto svariate nomination all’Oscar, e meriterebbe tutti i riconoscimenti principali. (4,5/5)

Con Le Vele Scarlatte (2022) Pietro Marcello riprende la strada della fiction inaugurata da Martin Eden. Lo fa con una storia lieve, una fiaba tratta dal romanzo di Aleksandr Grin del 1923 (anno che ritorna). E anche qui, pure se in un film molto diverso, al centro c’è il rapporto fra un padre e sua figlia. Marcello stavolta è più lineare, confeziona un film bello da vedere che ricorda il Garrone de Il Racconto dei Racconti senza essere mai superficialmente estetizzante, grazie alla capacità di dare forza alle immagini rendendole memoria e confondendole con la memoria stessa. Fortissima la figura di Raphaël Thierry, un uomo che sembra ricoperto da strati di corteccia, le enormi mani nodose e piene di solchi, che mostra costantemente la sua fragilità. (4/5)

Pur essendo un film ostentatamente assurdo, caleidoscopico e sopra le righe, anche al centro di Everything Everywhere All at Once (Daniel Kwan e Daniel Scheinert 2022) c’è il rapporto fra un genitore, stavolta una madre, e sua figlia. Chiassoso, spesso esilarante, forse il miglior titolo su quello che in questi anni è diventato un filone estremamente prolifico, quello dei film e le serie che si aprono sul multiverso. Il film unisce i voli pindarici della Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams con suggestioni alla Matrix e scene d’azione strabilianti quanto eccentriche, portando il tutto a ruotare attorno all’amara riflessione sull’esistenza che può schiacciare un’adolescente. Il film è così ricco e spudorato da non rinunciare a momenti di demenza purissima che, nelle infinite possibilità delle cose, hanno tutto sommato piena cittadinanza. L’opera dei Daniels, anche se probabilmente in poche categorie è davvero favorita, ha ricevuto un numero smodato di nomination all’Oscar, dove quel numero è undici. (4/5)

Pinocchio di Guillermo del Toro (2022), non ricordo più tutti i motivi per cui ho trovato terribile questo film d’animazione a passo uno. Ad ogni modo, pur non essendo un fan sfegatato del libro di Collodi, credo che una delle cose più interessanti sia la sua struttura libera, frammentaria, paratattica. Del Toro snobba completamente il testo originale e costruisce una storia narrativa nel modo più classico, una sceneggiatura americana, tendenzialmente disneyana, con tutti gli snodi obbligatori al posto giusto e una buona dose di action. Alla base, come aveva fatto (molto meglio) nei suoi primi film che ruotano attorno al franchismo, ampi riferimenti alla dittatura fascista, anche qui senza dare una lettura che giustifichi la scelta, ma utilizzando la cornice per qualche sberleffo e per calare i personaggi nella totale normalità dell’intreccio. Rischia di vincere l’Oscar per il miglior film di animazione. (2/5)

Per finire, un paio di serie. Makanai (2022), 9 episodi su Netflix, è prodotta e in parte diretta da Kore-eda. Tratta da un manga di Aiko Koyama che ricorda il Taniguchi più zen e quotidiano, è il racconto corale, ambientato a Kyoto, di un gruppo di aspiranti maiko. Praticamente privo di conflitti espressi, Makanai è ricco di dettagli, di pensieri, di cultura e di vita. Probabilmente una delle mie serie preferite. (4,5/5)

Copenhagen Cowboy (2022), su Netflix, è, dopo Too Old to Die Young, la nuova serie di Nicolas Winding Refn. Nella serialità Refn è anche più cattivo e radicale nella scelta dei temi e dei tempi, mentre si dà un freno su quanto sia possibile mostrare. Sempre più arty, è uno spettacolo di regia, di luci e musiche, di movimenti di macchina e gestione dei tempi, di desolazione umana e smarrimento in spazi squallidi e labirintici. Un prodotto non per il grande pubblico, ma che costruisce una protagonista femminile come se ne trovano poche. Piaciuto molto, spero NWR riesca a dare seguito al progetto. (4/5)