Nomadland, recensione del film di Chloé Zhao, Leone d’oro 2020

Pubblicato su Bologna Cult

Alcuni critici e commentatori si sono affrettati a ridimensionare il valore di Nomadland, quando lo scorso settembre ha vinto il Leone d’oro al Festival di Venezia, vedendoci una sorta di sindrome di Manu Chao, un’impostazione non abbastanza disincantata, realista, contemporanea, richiamando un concetto che nella contemporaneità è invece certamente fra i più stupidi, il buonismo. Prima e dopo Venezia il film di Chloé Zhao ha ricevuto molti altri riconoscimenti, meritati, fra cui quelli ai recenti Golden Globe (film, regia, attrice e sceneggiatura) e le nomination agli Oscar nelle categorie principali. Dal 30 aprile sarà su Star di Disney+ e, appena tornerà possibile, anche nei nostri cinema.

Quello di Chloé Zhao è un cinema reale, analogico, un cinema spaziale in cui l’ambiente ingloba chi ad esso vuole abbandonarsi. Come nel precedente The Rider – il sogno di un cowboy, Zhao lascia narrare ai protagonisti le loro storie, in un flusso documentario che fonde l’impersonale del paesaggio ai volti che testimoniano le storie di vita. Nomadland, basato sul racconto di inchiesta di Jessica Bruder, trova nei suoi protagonisti la necessità e la scelta, il vagabondare per gli spazi degli Stati Uniti dopo aver perso il lavoro e gli affetti. Persone messe sulla stessa strada da destini simili e diversi ricostruiscono uno spirito di comunità, fanno nascere e condividono un nuovo sguardo. Questa umanità in movimento viene idealmente accostata a quella dei primi pionieri, ma è un accostamento tendenzialmente fatto da chi non ne fa parte. Perché i nuovi nomadi lasciano, non vanno alla ricerca di qualcosa, hanno perduto e non si muovono per conquistare, ma per rendere mobili le loro radici, e fondare un nuovo senso di riconoscimento e dignità.

Alle storie reali che spesso Frances McDorman, nel personaggio di Fern, ascolta e osserva come fosse un’incarnazione delle autrici – la scrittrice e la cineasta -, si alterna la storia di fiction della stessa Fern, più familiare e raccolta, che ha lo scopo di portare lo sguardo sul momento del cambiamento, sull’apertura del pensiero e del concetto stesso di appartenenza. Se McDorman, come sempre, sembra essere nata nel ruolo che interpreta e annullare con la sua presenza quella della macchina da presa, Zhao, regista, sceneggiatrice e montatrice, conferma la sua capacità di unire differenti piani e registri apparentemente con grande facilità. In un’impostazione al tempo stesso realistica e panica, che per certi versi, ma evitando gli aspetti più esasperati, ricorda il nostro Roberto Minervini, affronta storie anche difficili senza eccedere nella drammatizzazione, mostra gli spazi e i volti senza enfasi né commiserazione.

(4/5)

Un pensiero su “Nomadland, recensione del film di Chloé Zhao, Leone d’oro 2020

  1. Pingback: Nomadland: recensione del film

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.