La Vetta degli Dei (Patrick Imbert 2021), recensione

Tratto dal manga di Jiro Taniguchi e Baku Yumemakura, diretto dal francese Patrick Imbert, La Vetta degli Dei è una delle cose più belle viste quest’anno. Il disegno di Taniguchi è fedelmente riportato ed è meraviglioso vederlo in un’animazione in tutto rispettosa, nella costruzione dei personaggi e della storia, nella creazione dei tempi e delle atmosfere.

Era da tanto che non vedevo un film così reale. La montagna disegnata è la montagna vera, ed è il suo racconto possibile. Il disegno fonde la natura all’umano, realizza la sintesi fra l’assoluta alterità – le rocce, il vento, la neve, il gelo – e la coscienza umana. Consapevolezza di stare attraversando spazi estranei, l’immersione in quella stessa estraneità come mezzo per trovare la dimensione di sé.

La Vetta degli Dei è un film classico, e mi sto convincendo che allo stato niente riesca a essere davvero contemporaneo se non un film che nasce con una forte impostazione classica. La tendenza delle rappresentazioni che scivolano via è quella di concentrarsi su un definito aspetto stilistico, o gergale, che durante la visione è facilmente classificabile, e a fine visione è già in buona parte invecchiato. Il regalo di Imbert è un corpo narrativo compiuto, rotondo, dove ogni elemento si mostra con naturalezza, le musiche sottolineano con garbo alcune scene e spesso lasciano spazio al silenzio, come nell’ultima splendida parte del film. Un romanzo visivo di cui è difficile suggerire la bellezza, la necessità, l’umanità, la semplicità, è essenziale esserne spettatori.

(5/5)

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