Rumore Bianco (Noah Baumbach 2022)

Rumore Bianco non parla dell’America, non degli anni ’80, e non è neanche una contorta o enigmatica speculazione, Rumore Bianco è pura paranoia e depressione. Il libro di DeLillo e il film di Baumbach sono un’immersione in nevrosi e paure universali e senza tempo, resa possibile dalla costruzione e il linguaggio di uno dei romanzi più significativi della letteratura contemporanea.

La scrittura di DeLillo è un concentrato di sarcasmo e disillusione, uno sguardo sull’essere umano che non giudica ma non lascia spazi di manovra, è l’osservazione di un’essenza di cui l’autore, prima di tutti, si fa carico e si riconosce “colpevole”. Il primo scopo della ricerca narrativa e lessicale dell’autore è quello di trovare una forma che possa mostrare sé stesso, la via più sincera, o almeno quella più praticabile, per scoprire l’assurdità collettiva.

Rumore Bianco è (era) uno di quei testi di cui piace dire come sia impossibile la trasposizione. Non perché racconti qualcosa di difficilmente visualizzabile, ma, credo, per il motivo opposto, perché troppo definito, troppo perfetto. DeLillo scrive e descrive minuziosamente dialoghi, personaggi, movimenti, immagini, dettagli, e questa completezza non lascia spazio a tutto quello che è enfatico, edulcorato, salvifico, inutilmente spettacolare. È comodo indicare Rumore Bianco come non rappresentabile perché rischia di rendere evidenti i limiti dell’abitudine dello spettatore, che sono, di conseguenza, i limiti che si impongono al cinema.

Rumore Bianco non ha una struttura consequenziale né fluida, non è in nessun modo rassicurante, specialmente nel suo ostinarsi a essere così normale, a denudare la realtà prendendo una famiglia a caso, una fra tante, e scoprendo da subito la solitudine, le paure più profonde e istintive, i goffi rituali autodifensivi che hanno effetti puramente esteriori.

Baumbach rispetta e rappresenta tutto questo. La sua regia, proseguendo quanto cominciato con Storia di un Matrimonio, si è fatta più cattiva, più espressiva, e porta su schermo tutto il falso distacco delle pagine, dove si può invece leggere un’autopsia autopraticata. E una moltitudine di paure individuali realizzano il caos della paura collettiva, mascherata da rituali consumistici, dalla voglia di apparire agli altri come una guida, e da quella ancora più forte di seguire chi sembra fornire dei desideri raggiungibili.

L’assurda lezione che vede intrecciarsi, nel balletto di due vanitosi professori, aneddoti su Hitler ed Elvis, la rasoiata, fin dal suono delle parole, di un “Evento Tossico Aereo” che rende visibile l’intimo smarrimento di ognuno, l’accogliente e anestetica idiozia del supermercato, le informazioni che riassumono stupidamente la vita di un individuo senza dare indicazioni su come migliorarla, la perfezione di una pillola, della sua levigatezza e della sua chimica, l’epilogo dai toni acidi e orrorifici, la paura della morte che corrisponde alla sua fascinazione. C’è tutto nel film di Baumbach, che come Cosmopolis, l’altro titolo recente tratto dagli scritti del newyorkese, offre una lettura preziosa e ossessiva delle ossessioni della contemporaneità.

(4,5/5)

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