Hostiles – Ostili (Scott Cooper 2017). Molta violenza per un film innocuo

hostiles slowfilm recensioneIl western, come la fantascienza, è un genere nobile, adatto a svolgere più o meno ogni discorso. Dagli anni ’70, attraverso la destrutturazione di Altman, Peckinpah, Hill e gli altri, si può leggere nel western l’evoluzione di tutto il cinema, fino a contarne gli anelli di crescita. È, ancora oggi, un campo in cui poter sperimentare immersioni nell’umano, tanto quanto iperviolente ibridazioni pop.

Hostiles, la nuova epopea pionieristica con Christian Bale, non trova, invece, la sua cifra. Vuole essere un western contemporaneo, ma finisce solo per snaturare il discorso classico, inquinando entrambi i mondi. Rispolvera i pellerossa selvaggi e assetati di sangue, per poi procedere alla loro necessaria riabilitazione, senza che questa sia supportata da una effettiva evoluzione narrativa. Costruisce personaggi monolitici e violenti, che si raccontano come tali, e ne stravolge l’essenza: da una scena all’altra cambiano, semplicemente guidati dall’esigenza di raggiungere una definizione più al passo coi tempi. Hostiles, per il resto, è un film ben girato, e la fotografia di Masanobu Takayanagi riesce a riproporre uno degli aspetti più affascinanti del genere, l’inglobante – decisivo e indifferente – che è nell’ambiente e nella natura. Anche per questo, l’impressione più forte è quella che il film di Scott Cooper sia prima di tutto un’occasione mancata.

(3/5)

Crazy Heart (Scott Cooper 2009)

crazy heart…matto da legare. O anche: se nella vita ti capita anche un solo Lebowski, ti è andata già di lusso. 
 
Non la pensa così Bad Blake, astro della musica country che ha già percorso buona parte del suo viale del tramonto, schiacciato dall’alcool e il fumo (l’eroina è roba da punk), che da un certo punto non gli regalano più solo l’ispirazione e l’aura da maudit impolverato, ma anche un’andatura da settantenne e la tendenza a perdere cose, persone e affidabilità di alcuni organi interni.
 
Se Crazy Heart va accolto come una ballata, una delle tante possibili variazioni autoriflessive sull’amarezza della vita, nel complesso si presenta come una di quelle scritte un po’ col culo, per riempire il lato b. C’è tanto sentimento posticcio, fra questo artista che oltre ai cliché del settore e la faccia di Jeff Bridges non offre nessun altro punto di interesse, e la giornalista di provincia / mamma sola ferita dalla stupidità maschile, Maggie Gyllenhaal. Entrambi cercano una seconda opportunità, e la loro storia si svolge fra snapshot di aride distese texane, belle come sono al cinema, performance live con a solo di conato ribelle, corteggiamenti e scaramucce con battute arrangiate o forzate, qualche inquadratura espressionista brutalmente meccanica, che mostra l’alcolizzato dal volto colpevole e distorto soffrire nel suo letto.
 
Crazy Heart non è neanche troppo dannoso, ma di memorabile, anche solo dal punto di vista emozionale, non offre praticamente niente, attento com'è anche a evitare di spingere sul dramma. Mi sono trovato bene, per pochi minuti, a pescare su un placido lago verde, in barca con una birra, ma a questo punto è meglio pescare con John, che fa musica meno prevedibile.

(2,5/5)