Addio Paul Auster

Paul Auster è stato uno degli autori principali, nella personale era in cui si formano i ricordi fondamentali. La sua scoperta è stata come l’incontro tra altri due grandi creatori di suggestioni, tra l’incorporeo di Borges e le vite di Carver. Moon Palace fu fulminante, osservavo la foto di copertina mentre assorbivo quanto appena letto. Amante del cinema, negli anni ’90 lascia una traccia importante scrivendo la sceneggiatura per un film blues, Smoke, dove c’è tutta la poetica casualità dei suoi racconti, e il bianco e nero caldissimo della chiusura con Il racconto di Natale di Auggie Wren, la musica di Innocent when You Dream di Tom Waits. Baumgartner, il suo ultimo romanzo, è un addio consapevole in cui lo scrittore si mostra distintamente, mentre si racconta costruendo le memorie, gli acciacchi e le incerte speranze del suo personaggio.
Addio Mr. Auster, grazie davvero.

Dune 2 (Denis Villeneuve 2023)

Con Dune 2 Denis Villeneuve completa la trasposizione del primo romanzo del ciclo iniziato da Frank Herbert nel 1965, con l’intenzione, dichiarata da tempo, di concludere una trilogia filmica con l’adattamento del secondo libro, Messia di Dune, pubblicato nel 1969.

Dune 2 funziona, e presenta, rispetto al primo film, una maggiore commistione della storia con le caratteristiche registiche dell’autore: Villeneuve porta modifiche più evidenti all’intreccio, anche semplificandolo, rendendolo più cinematografico e, presumibilmente, preparandolo a una compiuta definizione con il terzo atto. Dune 2 è un film che sa essere feroce, nella definizione dei personaggi e del loro destino (delle molteplici sfumature che l’idea di destino assume di volta in volta nel racconto), vestito di quella forza visiva rigorosa e immaginifica assieme, che è la cifra del resista canadese. A supportarlo, la fotografia di Greig Fraser e le musiche di Hans Zimmer, sempre molto presenti, ma stavolta meno pompose e più al servizio delle immagini, e talvolta disposte a farsi da parte per lasciare ascoltare il silenzio del deserto o i suoni netti degli scontri. Trovano così spazio scene di grande impatto, come quella iniziale, dalle forti dominanti rosse e le linee espressioniste, o il bianco e nero fantasmatico dell’azione sul pianeta Giedi Prime. Un rigore che ricorda quello di Sicario, carico di tensione e capace di valorizzare le sospensioni narrative per dare spazio all’immagine.

Villeneuve, come detto, si prende alcune libertà, e attraverso queste scelte, essenziali da compiere per realizzare un buon adattamento (che non può mai essere un calco del materiale di partenza), riesce a interpretare le caratteristiche fondamentali del libro. Quella di Dune rimane una storia che riguarda le masse, i popoli, i mondi, prima degli individui, è una fantascienza etnologica in cui le parti rispecchiano sia le diverse popolazioni del nostro pianeta, sia le distinte pulsioni dell’essere umano. Un’ottica così ampia, per funzionare, evita di concentrarsi sui singoli personaggi e anche sul personaggio principale (scelta non facile per un titolo mainstream), che subisce la propria investitura, imposta esternamente da quelle stesse masse. In questo si riporta fedelmente il messaggio di Herbert, che non ha mai voluto presentare il suo messia come una promessa o una salvezza, quanto come una tentazione.

(4,5/5)

Tutto quello che ho visto degli Oscar 2024

Di molti film, anche buoni, visti negli ultimi mesi non ho appuntato niente, l’Oscar offre l’occasione per recuperare qualcosa. Cominciando dal Miglior Film, Oppenheimer parte come favorito ma non è di certo il mio favorito. Nolan racconta di questo mondo assurdo dove, qualsiasi cosa stia facendo, c’è almeno un quartetto d’archi a commentare straziato le tue azioni. Più spesso, c’è un’intera orchestra in crescendo drammatico a seguirti mentre ti versi il caffè o compili la lista della spesa. Tutta questa tensione, inevitabilmente, porta i Paesi verso la corsa all’atomica. Nolan continua a fare grossi film che non mi cambiano la vita, e in questo caso non sceglie né di romanzare la storia, come fanno classicamente gli americani, né di provare una struttura in qualche modo sorprendente. C’è la messa in scena di una serie di eventi, un po’ mescolati, un po’ decolorati, molto, troppo dialogati, e al centro un assurdo, forse un po’ morboso, striptease della bomba (2,5/5).

Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, Anatomia di una caduta di Justine Triet, Povere creature! di Yorgos Lanthimos e La zona d’interesse di Jonathan Glazer, di cui si è già detto, sono tutti ottimi film, e non è affatto poco. Lanthimos con Poor Things procede sul percorso di “normalizzazione” intrapreso con La Favorita, ma preferisco questo al tentativo di ripetere le intuizioni più radicali dei suoi primi lavori. Di Povere Creature si è detto molto, il film è interessante e bello da vedere, Emma Stone è l’ottima protagonista di un’opera che richiama la meraviglia di Melies e Lang, le vedute dell’inferno di Bosch, ci mette ironia, crescita e acquisizione della consapevolezza. Povere Creature richiama, capovolgendoli, i temi di Dogtooth, con una protagonista estranea ai vincoli sociali che sperimenta una progressiva acquisizione della conoscenza, anche lessicale, che invece nel film del 2009 viene negata o manipolata. Oltre a Stone, meno appariscente ma bravo Mark Ruffalo nell’incarnare una realistica e altrettanto preziosa caricatura maschile (4/5). Scorsese, dopo le delusioni di Silence e The Irishmen, torna con un filmone, Killers of the Flower Moon, epico e cattivo, fatto di personaggi orribili e monumentali (perfetti De Niro e DiCaprio), capaci di ingannare perfettamente anche loro stessi (4/5). A portare sullo schermo l’ambiguità e l’incertezza c’è anche Anatomia di una caduta, un film affasciante, compatto, rigoroso, sulla fragilità della realtà, con al centro una splendida Sandra Hüller, quest’anno anche in Zone of Interest (4/5).

American Fiction di Cord Jefferson è quel che si suol dire un film carino. Parte bene ironizzando sull’incapacità contemporanea di contestualizzare parole e pensieri nei tempi e nei luoghi in cui hanno avuto origine, nel suo svolgersi conserva il tema integrandolo con l’appiattimento verso rassicuranti luoghi comuni che fa la fortuna di molti autori (scrittori, in questo racconto). Si perde, però, in una specie di commedia degli equivoci, e alla fine si pone come un film gradevole, ma non particolarmente incisivo e inutilmente sospeso (3/5). Past Lives di Celine Song è un film molto romantico, nostalgico, sentimentale, ce lo dice fin dalla prima inquadratura e lo ripete in continuazione. Parla di vite possibili, incroci statistici e coincidenze perdute, ma si dimentica di costruire i suoi personaggi. Nonostante il suo successo, mi è quindi sembrato un film teorico e senza guizzi, un film sul destino o sulla sua mancanza, con più di uno sguardo a Wong Kar-wai, che non suscita interesse reale nella destinazione dei suoi piattissimi protagonisti, che si limitano a enunciare soltanto le caratteristiche che li renderebbero esseri umani, oltre che le parti di un film a tesi (2,5/5). Di Barbie mi sento di dire solo che dalla coppia Gerwig Baumbach mi aspettavo decisamente di più. Prima dell’uscita del film pensavo a come sarebbe difficile scrivere una sceneggiatura realmente interessante su un prodotto come Barbie, e infatti non lo hanno fatto, hanno titillato gli istinti più elementari di una sorta di femminismo glam e instagrammabile, portandolo nei canoni più risaputi della commedia demenziale americana. Peccato. (2,5/5).

Anche nella categoria Miglior Film Internazionale molti titoli interessanti: Perfect Days, un Wenders in formissima che anche da noi hanno visto in tanti, dimostrando che fare cinema vero può pagare, ancora la Zona di Interesse di Glazer, e Io Capitano di Matteo Garrone, un’odissea che forse non è il suo film più sorprendente (per molti versi credo Garrone sia il nostro regista più bravo), ma un film importante e necessario (3,5/5).

Infine il Miglior Film d’Animazione, categoria potenzialmente interessantissima ma quasi sempre schiacciata su posizioni statunitensi e più precisamente disneyane. Questo potrebbe essere però l’anno della seconda, strameritata statuetta ad Hayao Miyazaki, dopo La Città Incantata del 2003, con il visionario Il Ragazzo e l’Airone. Gli altri titoli sono il Pixar (Disney) Elemental (3/5), un po’ confuso e non proprio memorabile, ma comunque migliore specialmente delle ultime prove a marchio puramente Disney, Nimona e Spider-Man: Across the Spider-Verse. Nimona è un cartone molto Netflix, fatto di tratti stilizzati, montaggio veloce e messaggi inclusivi condivisibili quanto veicolati in modo didascalico (3/5), mentre Spider-Man è uno straordinario esempio di avanguardia superammiccante. Nell’ennesima variazione sul tema degli universi paralleli, la storia è terribilmente maltrattata, una sovrapposizione di momenti che riprendono altre storie, ne mescolano i topoi senza portare a compimento o alla maturità nessuna narrazione. Dal punto di vista estetico e cinetico riprende varie correnti sperimentali ampiamente sperimentate, specialmente nell’animazione, portate in un montaggio epilettico, così costantemente frammentario e ultraveloce da non avere ritmo (2,5/5).

Update: ho dimenticato, in questo appello, La Meravigliosa Storia di Henry Sugar, cortometraggio (ma di 40′) di Wes Anderson e oggi prima statuetta per il regista. I quattro corti che Anderson ha tratto da scritti poco noti di Dahl sono su Netflix e sono abbastanza sorprendenti. Sia per la versione matura dello scrittore che offre uno straordinario punto di partenza, sia per quello che mi sembra sia un nuovo periodo d’oro del regista. Henry Sugar unisce l’impostazione teatrale e l’estetica consolidata di Anderson, che già con Asteroid City era tornato a realizzare film pienamente convincenti, dall’impostazione autoriale e ispirata.

La Zona di Interesse – The Zone of Interest (Jonathan Glazer 2023)

La Zona di Interesse non mostra l’orrore, ma la colpa. Sappiamo dell’orrore, la colpa è la facilità con cui ne gestiamo l’esistenza. Jonathan Glazer non mitiga la ferocia degli aguzzini mostrandoli come esseri umani, che curano i figli, la casa, i cespugli di lillà, riporta quella ferocia alla dimensione di un grumo nascosto all’interno dell’essere umano. I confini della cura sono immediati, strettissimi, limitati al proprio nucleo, e solo quanto rientra all’interno di quei confini suscita sentimenti e preoccupazioni che definiamo umani, tutto il resto non ha lo stesso peso, la stessa densità.

C’è un libro di Charlie Kaufman, assurdo e molto bello, Formichità, da poco pubblicato anche in Italia, che fra molte altre cose racconta di un uomo che dedica la propria esistenza alla realizzazione di un film a passo uno, della durata finale di tre mesi. Il lavoro dura circa novant’anni perché l’autore, oltre a realizzare il film, ricostruisce, senza riprenderla, anche l’esistenza degli Invisibili, costruisce le vicende di centinaia di pupazzi che rimangono, appunto, invisibili, ma che l’autore non può tralasciare mentre mette in scena le opere dei visibili.

Tutto il film di Glazer rispetta questa separazione tra visibili e invisibili, ma quello che succede al di là delle mura che separano e bloccano lo sguardo, tracima sotto forma di suoni, urla, abita l’aria che i visibili respirano e l’acqua in cui si bagnano. C’è piena consapevolezza di quel che accade e di quanto sono diretti responsabili, c’è l’accettazione, per niente problematica, di poterne trarre vantaggio, di potere alimentare in quel modo le comodità della propria esistenza.

Glazer sviluppa due film che coesistono, uno esclusivamente sonoro, infernale, l’altro visivo, gelido, fatto di inquadrature perfette, di burocrazia e considerazioni logistiche, di svaghi domestici e segnali esterni da ignorare, o da gestire nei limiti in cui questi arrivano, alla fine di un processo, a toccare il quotidiano. Come con lo snap con cui la pelle si separa dal corpo dissolto, nel suo precedente Under the Skin, un suono affilato, indefinibile e definitivo, il regista dissemina ne La Zona di Interesse effetti sonori autonomi, grugniti extradiegetici che nascono dalla presenza nel quadro dei gerarchi, effetti sonori che nascono dallo stridere dei piani indicando una sorta di incosciente permeabilità degli stessi. Da questa permeabilità, lo stravolgimento se non dell’animo, del corpo di Rudolf Höß. Nella sua molteplicità di livelli, separati artificialmente per mostrarne la grottesca coesistenza, La Zona di Interesse è un film che segna, scava, per alcuni versi prosegue il discorso de Il Nastro Bianco. Se Haneke portava il suo film negli anni in cui il nazismo stava ancora formando le sue radici, Glazer immerge nell’orrore mettendoci davanti al distacco con cui viene sistematicamente normalizzato.

(4,5/5)

Il Ragazzo e l’Airone (Hayao Miyazaki 2023)

Il cinema di Miyazaki racconta un mondo che respira, a volte in maniera visibile e accentuata, un mondo in cui gli elementi o i personaggi sono attraversati da una forza o dalle sensazioni, fino a modificare i loro tratti. Come quando Kiki vola per la prima volta, e i capelli le si alzano sulla testa, come il fremito che attraversa Chihiro ne La Città Incantata, quando calpesta il verme liberato dal sigillo, come Totoro quando sente le gocce di pioggia cadere sull’ombrello, e come la terra scossa dal terremoto in Si Alza il Vento e il mare vivente e in burrasca di Ponyo.

Ne Il Ragazzo e l’Airone questa sensazione è costante, è un brivido che attraversa l’intero racconto ed è il vero soggetto del film, che presentare una forma caotica e incompleta, e che in quella forma trova proprio il suo compimento. L’ultimo lungometraggio di Hayao Miyazaki è sì uno sguardo su tutta la sua produzione, ma è uno sguardo che trova la sua unicità nel lasciarsi completamente trasportare, creando un mondo, onirico come non mai, che respira non solo per il suo protagonista, ma per mostrare l’intero ciclo dell’esistenza. Dopo una prima parte di estrema bellezza cinematografica e realistica, è un percorso dantesco quello seguito da Mahito, attraverso un mondo in cui non si può restare, ma di cui bisogna comprendere l’esistenza, perché questa consapevolezza possa rendere sopportabile la realtà.

Il mondo fantastico di Mahito è guidato da istinti strettamente naturali, non arginati da regole e sovrastrutture culturali. Mahito vedrà come sono le esistenze prima di cominciare a esistere e vedrà i loro predatori, vedrà il caos da cui proveniamo, in cui nasciamo prima di nascere, che pensiamo da adulti di poter controllare, e comprenderà come questo, invece, non sia possibile. Non c’è il percorso di crescita graduale di Chihiro, ma la consapevolezza di vivere all’interno di una sorta di disequilibrio cosmico, un amalgama fra tempi ed esperienze diverse di esistenze diverse.

In una dimensione in cui ogni pelle sta stretta, in cui le figure eccedono i propri confini e mutano in continuazione, si parla di accettazione, ma non solo di accettazione della perdita. Miyazaki considera l’accettazione in senso totale, nel comprendere di doversi muovere all’interno di qualcosa che non si può padroneggiare e che non è mossa da uno scopo o un senso morale, né tantomeno da una tensione all’ordine. In un susseguirsi di immagini artigianali e meravigliose, attraversate dal fremito della vita e della morte, Il Ragazzo e l’Airone invita ad accettare la caotica bellezza del disequilibrio.

(4,5/5)

Perfect Days (Wim Wenders 2023)

Esce oggi nei cinema Perfect Days, uno dei film più belli di Wim Wenders e, di conseguenza, uno dei film più belli degli ultimi anni. Uno sguardo poetico e minimalista segue le giornate di un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. Intanto incontra persone vecchie e nuove, diverse storie si dipanano e si intrecciano in modo naturale, il tutto su una colonna sonora, famosissimi pezzi anni 60 e 70 rigorosamente su audiocassetta, scelta da un protagonista incapace di rinunciare alla bellezza e al coinvolgimento, e quindi di vivere in un modo in cui il mondo sarebbe più pronto ad accettarlo. C’è Jarmusch, che d’altra parte in Wenders ha avuto un maestro, c’è il cinema classico di Ozu, c’è un finale intenso quanto quello di Tsai Ming-liang in Vive l’Amour, per anni riproposto Fuori Orario da Enrico Ghezzi. Un film ormai vecchio stile, che fanno praticamente solo i vecchi maestri, che mostra come il cinema possa disegnare la vita, e per una volta non credo di essere riuscito a trattenere una lacrima.

(5/5)

The Killer (David Fincher 2023)

David Fincher, lo dico da non fincheriano, ha fatto un buon film, da vedere. The Killer sta dalle parti del Jarmusch di Ghost Dog e The Limits of Control, del Mann di Blackhat e Collateral, ricordando anche la vena orientale che hanno esplicitamente mostrato entrambi, in alcuni dei loro lavori. Ma sta dalla parte di molti, da quella di Ferrara, Melville e tanti altri, perché The Killer rispetta pienamente il genere, in maniera classica e confortevole. È un lavoro non stupefacente ma solido, che si distingue dalle serie tv, riavvicinandoci al cinema.

Regole di condotta e operazioni sistematiche di eliminazione e vendetta sono al centro del lavoro di Michael Fassbender, attore che in un certo periodo trovavo ovunque ma da un po’ non incrociavo, che mi ha fatto piacere ritrovare. Fincher gestisce i tempi senza affrettare le inquadrature, sceglie un commento sonoro presente ma non invadente, descrive spazi spesso lussuosi e impersonali, che il killer abita e manomette per i suoi scopi. Il suo lavoro è ripetizione, come il cinema è ripetizione. La ripetizione di rituali più o meno efficaci, la ripetizione infinita di tempi e azioni definite, il presente che attualizza ancora gli stessi ricordi, trasformandoli di nuovo in esperienze.

Si può vedere su Netflix.
(3,5/5)

La Fortuna di Nikuko (Ayumu Watanabe 2021)

La Fortuna di Nikuko è un anime delicato, ironico e visivamente molto curato. Degli autori in qualche modo “miyazakiani”, fra i quali i più celebri e solidi sono Makoto Shinkai (Your Name, Weathering with You) e Mamoru Osada (Boy and the Beast, Mirai), Ayumu Watanabe, già regista del bellissimo I Figli del Mare – Children of the Sea, è per certi versi il mio preferito.

Nikuko, trasposizione di un romanzo di Nishi Kanako, conserva lo staff, e per molti aspetti lo stile, di Children of the sea, con le figure affusolate e leggere, le forme stilizzate che si accostano a quelle più realistiche, i colori sgargianti, per dare forma a una storia squisitamente letteraria e nipponica.

Le tematiche, ancora, sono molto intime, ma qui, rispetto al più complesso Children, la storia di formazione è tutta centrata sul quotidiano, senza particolari conflitti e con molto gusto per la scoperta. Che arriva naturale, non drammaticizzata, accompagnata da sapori, luoghi, abitudini, giochi, nuove conoscenze.

Nonostante Nikuko si muova sul racconto minimale, scorre via veloce, sin troppo, e lascia una gran voglia di veder continuare la storia.

(4/5)

Il Soccombente (Thomas Bernhard 1983)

Il Soccombente, prima edizione 1983, con Antichi Maestri conferma Thomas Bernhard come la (mia, naturalmente) recente scoperta letteraria più interessante. Temevo che la presenza di Glenn Gould potesse essere ingombrante, ma Bernhard, pur dedicando al celeberrimo pianista e all’amico Wertheimer delle effettive caratterizzazioni, vira tutto all’impersonale, e attraverso il suo flusso ininterrotto di pensieri concentrici tocca innumerevoli argomenti. L’arte, la musica, la filosofia, per il modo in cui vengono idealizzate e da ognuno distorte, per il modo in cui diventano ingombranti ossessioni, per la vergognosa consapevolezza che anche le ossessioni siano costruzioni posticce. La consapevolezza di non poter trovare per sé una definizione, i tentativi di rassicurarci prendendo le distanze da chi, con nostro disappunto, rischia di somigliarci. Con la voce narrante, la voce fluente, che prova a fissare Wertheimer, sovrastato dal genio di Gould, per mostrarlo diverso da sé, mentre cresce la paura di incarnare il soccombente con uguale efficacia.

Fortunatamente il rituale imbottigliamento di Pasquetta mi ha offerto l’occasione per ascoltare una parte de Il Soccombente letta da Elia Schilton per Ad Alta Voce. La resa è particolarmente godibile, perché il testo è molto teatrale e qui ben recitato e arricchito dagli intermezzi della musica di Gould. Le ripetizioni accompagnate dalla ricerca delle parole adatte ad ampliare progressivamente i concetti originari sono ancora più evidenti e, mi piace pensare non per caso, mi hanno ricordato le costruzioni di Torre e Aprea. Quella di Bernhard, insomma, è una scrittura che porta delle riflessioni certamente amare, ma anche una scrittura autenticamente brillante e divertente.

Ho finito il libro il giorno dopo, su carta, e, in modo simile ad Antichi Maestri, che nelle ultime pagine scopre il ruolo della moglie del narratore, qui fa uno scarto per fissare gli ultimi giorni della follia di Wertheimer, definendo compiutamente la sua storia e quella della sorella. Mi sembra particolare il modo in cui Bernhard scrive quasi un intero libro fissando delle scene, con la sua prosa descrive personaggi e turbamenti sempre considerando le conseguenze delle cose. Bernhard non racconta gli accadimenti, non i fatti, ma le conseguenze nella loro infinita elaborazione, mentre solo alla fine ci porta nell’azione, in un luogo preciso in cui le cose accadono in un tempo definito. Mi è sembrato il modo di Bernhard di costruire un colpo di scena, il suo modo di ammiccare, ma non in senso negativo, è un elemento in più, a suo modo sorprendente, che rende il testo ancora più ricco e il narratore ancora più nudo.

(4,5/5)

Il Sol dell’Avvenire (2023) Nanni Moretti nel segno di una resa invincibile

Bello Il Sol dell’Avvenire, avrei preferito saperne di meno da trailer e interviste, che hanno anticipato quasi tutte le scene chiave (il film è breve, non sono poi molte), ma mi è piaciuto, senza aggiungere niente di sorprendente, e forse anche per questo. Sono contento che Bianca abbia visto al cinema il Moretti più morettiano (ma a me piacciono anche quasi tutti i suoi ultimi film), anche perché ti porta per mano, quindi da questo punto di vista è stato il film perfetto. Molto felliniano, con una curiosa convergenza proprio verso il pulp e violento Tarantino, che negli ultimi anni si è messo a raddrizzare la storia uccidendo Hitler e salvando Sharon Tate.

Nanni, come sempre, porta in scena sé stesso, Giovanni, mostra il risultato dello scorrere del tempo. Scandisce lentamente le battute rigorosamente non improvvisate, prova a tenere il tempo battendo le mani e non sempre ci riesce, spazia fra i ricordi e le possibilità sfuggite. Al suo fianco una Margherita Buy decisamente in bolla, molto spontanea e con gli occhi meno sgranati del solito, deve aver trovato la giusta combinazione di antidepressivi e sonniferi.

Il Sol dell’Avvenire non è propriamente un film nostalgico, perché rimpiange tempi che non abbiamo mai vissuto, il discorso è sempre quello del sentirsi scollati dalla maggioranza, della felicità mancata per istinto, e riguarda il cinema in sé almeno quanto il discorso politico e sociale. Moretti, sapendosi già sconfitto, parla di un cinema che non ha bisogno dell’artificio dell’evoluzione dei personaggi, un cinema estremamente personale, e trova la sua (auto)ironia nel proporre come naturale una visione enormemente minoritaria e poco remunerativa. Un cinema come sospensione e mondo a sé, con le canzoni che irrompono per fare la scena e non per commentarla, e i frammenti di storie che esistono solo perché il regista, come Cyrano, possa guidarle. È il racconto di un potere magico, sentimentale, fragile, con la consapevolezza che di questo potere non freghi un cazzo più o meno a nessuno.

Credo sia, fra l’altro, un film bello da vedere. Come per Allen, questo è un aspetto che per il tipo di film, che mette in primo piano la parola, si tende a non notare, mentre Il Sol dell’Avvenire ha una costruzione molto pulita ed elegante, romantica senza essere virtuosistica o troppo appariscente.
(4/5)