Minima Immoralia, maxisanatoria di film vari ed eventuali

Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse (James Gray 2022), a dispetto del titolo emmerichiano, quello di Gray è un piacevole titolo di formazione, presumibilmente d’ispirazione autobiografica, immerso negli anni ’80 americani. Ben equilibrato, più di una manciata di ottimi interpreti (Anthony Hopkins, Jeremy Strong, Anne Hathaway…), regia solida, meriterebbe di essere conosciuto di più. 4/5

The Party (2017), tragicommedia lampo, teatrale e in bianco e nero di Sally Potter, con un mucchio di attoroni (Kristin Scott Thomas, Cillian Murphy, Timothy Spall, Patricia Clarkson, il nostro amico Bruno Ganz) variamente esasperati dall’esistenza. Assolutamente godibile. (3,5/5)

Saltburn (Emerald Fennell 2023), per qualche momento è stato il caso del momento, su Amazon. L’impianto teorico è molto vicino a Il Talento di Mister Ripley, ma è un film estremamente estetizzante e didascalico, e ridotto a prodotto social il suo impatto è stato limitato a una scena e poco più. Molto diversa, ma anche molto più riuscita, la più o meno contemporanea serie Ripley. 2,5/5

Il Talento di Mr. Ripley (Anthony Minghella 1999), filmone decisamente anni ’90, recuperato sulla scia della serie. Impianto pop, montaggio serrato, dimostra tutti i suoi anni e anche qualcuno in più, ma ha il suo perché. 3,5/5

C’è Ancora Domani (Paola Cortellesi 2023), film perfetto per le sfrenate polarizzazioni del pubblico online, ho il problema di non potermi accomodare da nessuna delle due parti. Pur condividendo a pieno le basi teoriche e anche didattiche, non posso negare che mi sembri un film con più di qualche problema di scrittura e scolastico dal punto di vista registico, che si preoccupa di più di realizzare scene con messaggi importanti, che di costruirle in maniera coerente. Comunque una interessante opera prima, dal successo innegabile. 3/5

Foglie al Vento (Aki Kaurismäki 2023), un film così Kaurismäki che il nostro non ha pensato di doverci mettere molto altro. Quadri fissi, silenzi, una storia kaurismakamente romantica, un accenno di mondo esterno allo sfascio. Più che un film una firma, un tag. 2,5/5

Il Pataffio (Francesco Lagi 2022), film italiano comodamente su Netflix, credo piuttosto oscuro (ma magari sbaglio, e ha anche lui la sua fanbase). Avventure cavalleresche e scalcagnatissime del Marconte Berlocchio (un Lino Musella assolutamente in parte), evidenti i richiami a Brancaleone. Alcune scene sono telefonate e sfilacciate, ma il film porta anche qualche risata e un notevole carico di amarezza. Si lascia vedere. 3/5

Il Mondo Dietro di Te (Sam Esmail 2023), altro titolone Netflix tendente al flop galattico. Film per molti versi ingiustificabile, ha buoni momenti che ricordano un Rumore Bianco meno ermetico, poi sceglie una strada del tutto sconclusionata. 2/5

La Terra dei Figli (Claudio Cupellini 2021), tratto dall’angosciante e postapocalittica graphic novel di Gipi (che già non è fra le sue migliori), ne riproduce il senso di perdita e disperazione, ma dovessi dire che c’è qualche invenzione che mi ha particolarmente colpito, mentirei. Sensazione simile, ma ancora più scarna, per L’ultimo Terrestre (Gianni Pacinotti 2011). 2,5/5 a entrambi

Los Colonos (Felipe Gálvez, Felipe Gálvez Haberle 2024), cruda e annichilente storia di frontiera (quella fra Argentina e Cile), fatta di spazi di cui appropriarsi, sopraffazioni, violenze (visivamente non troppo esibite, ma molto presenti). Ricorda sia gli spazi di Malick che la mancanza d’aria di Kelly Reichardt. Alcune immagini e scene davvero notevoli. 4/5

Old Fox (Ya-chuan Hsiao 2023), taiwanese, miglior film visto nella rassegna dedicata al Far East Film Festival, e ottimo film in assoluto. Solida sceneggiatura di stampo classico, sulla conoscenza / confronto / rivalità / identificazione tra un ragazzino tipicamente sfortunato, bullizzato e intelligente, e l’anziano boss di quartiere. Bello, bravo. 4/5

Takano Tofu (Mitsuhiro Mihara 2023) è invece il titolo giapponese che il FEFF l’ha vinto. Storia edificante di padre e figlia, crescita e invecchiamento, susseguirsi di stagioni. Carino, confezionato per esserlo, molto più usuale del titolo citato su. 3/5

Tales of Taipei (AA.VV. 2023), ultimo titolo visto del FEFF, è un film a episodi realizzato da una decina di registi taiwanesi più o meno emergenti. Diverse tematiche, stili, riferimenti di genere, ma, per la verità, poco o niente che convinca davvero. Stracolmo eppure poco consistente. 2/5

Un Divano a Tunisi (Manele Labidi Labbé 2019), deliziosa, piccola commedia con un’altrettanto gradevole Golshifteh Farahani (Paterson). 3,5/5

Drive Away Dolls (Ethan Coen 2024), se l’escursione solitaria dell’altro fratello Coen, il The Tragedy of Macbeth di Joel, è riuscita alla grande, lo stesso non si può dire per questo film. Più di un occhio strizzato a Tarantino, anche se si può giustamente parlare di un ritorno alle dinamiche dei loro primi film (Blood Simple, Arizona Junior), ma perdendosi per strada. Alcune cose buone, senza colpa le protagoniste (Margaret Qualley, Geraldine Viswanathan), ma troppo sfilacciato il tutto, alla ricerca di un grottesco che, purtroppo, non fa ridere. Cosa che succede anche in alcuni titoli del duo, specialmente anni ’00. Quindi è interessante vedere esprimersi separatamente le due anime, la geometria e in cazzeggio, il dramma e la farsa, ma questo Drive Away Dolls tira verso il pasticcio. 2,5/5

Unfrosted (Jerry Seinfeld 2024), allegra, demenziale, puramente americana comedy a firma Seinfeld comparsa su Netflix. Per una serata molto spensierata fa il suo lavoro, anche con eventuale pubblico giovanissimo. 3,5/5

[sono stanco]

Inu-oh (Masaaki Yuasa 2021), lungometraggio animato dell’indubbiamente talentuoso Masaaki Yuasa, dal Giappone. Il film ha invenzioni visive notevoli, bizzarre e originali, ma tutta la seconda parte vira sull’opera rock decisamente ripetitiva. Molto interessante, ma un po’ ti affossa. 3/5

Civil War (Alex Garland 2024), mi piace Garland, ha fatto cose che mi piacciono molto (come Devs, ma anche Annientamento), e altre meno, in cui sembra voler infiorettare discorsi intimamente banali. Civil War è una via di mezzo, sembra, in gran parte, l’antefatto di The Road, o la sua trasposizione qualche decennio prima. Il discorso sull’immagine come testimonianza e racconto è molto esplicito, ed è anche la parte, credo, con maggiori licenze riguardo la verosimiglianza. Gli intermezzi pop con orrori su pezzi dei Suicide e altri sono coinvolgenti, ma la creazione delle clip è molto esibita, dà un senso di posticcio. Non mi è dispiaciuto, ma speravo mi sarebbe piaciuto di più. 3/5

Monster (Kore’eda Hirokazu 2023). Il giapponese Kore-eda è sempre bravo, non credo ci siano in giro molti altri autori con la sua solidità di scrittura e regia, con una visione del cinema così definita ed efficace. Anche questa una storia di crescita, di formazione, ben intrisa delle rigidità e le contraddizioni della società nipponica. Filmone. 4/5

Godzilla Minus One (Takashi Yamazaki 2023), l’ultimo Godzilla della cucciolata, che si rivela a 70 anni dalle intemperanze del capostipite, è un Godzilla pienamente anni ’50: ingombrante, divertente, atomico, animalesco. Infatti funziona. 3,5/5

[ho finito, ma a quale prezzo?]

Tutto quello che ho visto degli Oscar 2024

Di molti film, anche buoni, visti negli ultimi mesi non ho appuntato niente, l’Oscar offre l’occasione per recuperare qualcosa. Cominciando dal Miglior Film, Oppenheimer parte come favorito ma non è di certo il mio favorito. Nolan racconta di questo mondo assurdo dove, qualsiasi cosa stia facendo, c’è almeno un quartetto d’archi a commentare straziato le tue azioni. Più spesso, c’è un’intera orchestra in crescendo drammatico a seguirti mentre ti versi il caffè o compili la lista della spesa. Tutta questa tensione, inevitabilmente, porta i Paesi verso la corsa all’atomica. Nolan continua a fare grossi film che non mi cambiano la vita, e in questo caso non sceglie né di romanzare la storia, come fanno classicamente gli americani, né di provare una struttura in qualche modo sorprendente. C’è la messa in scena di una serie di eventi, un po’ mescolati, un po’ decolorati, molto, troppo dialogati, e al centro un assurdo, forse un po’ morboso, striptease della bomba (2,5/5).

Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, Anatomia di una caduta di Justine Triet, Povere creature! di Yorgos Lanthimos e La zona d’interesse di Jonathan Glazer, di cui si è già detto, sono tutti ottimi film, e non è affatto poco. Lanthimos con Poor Things procede sul percorso di “normalizzazione” intrapreso con La Favorita, ma preferisco questo al tentativo di ripetere le intuizioni più radicali dei suoi primi lavori. Di Povere Creature si è detto molto, il film è interessante e bello da vedere, Emma Stone è l’ottima protagonista di un’opera che richiama la meraviglia di Melies e Lang, le vedute dell’inferno di Bosch, ci mette ironia, crescita e acquisizione della consapevolezza. Povere Creature richiama, capovolgendoli, i temi di Dogtooth, con una protagonista estranea ai vincoli sociali che sperimenta una progressiva acquisizione della conoscenza, anche lessicale, che invece nel film del 2009 viene negata o manipolata. Oltre a Stone, meno appariscente ma bravo Mark Ruffalo nell’incarnare una realistica e altrettanto preziosa caricatura maschile (4/5). Scorsese, dopo le delusioni di Silence e The Irishmen, torna con un filmone, Killers of the Flower Moon, epico e cattivo, fatto di personaggi orribili e monumentali (perfetti De Niro e DiCaprio), capaci di ingannare perfettamente anche loro stessi (4/5). A portare sullo schermo l’ambiguità e l’incertezza c’è anche Anatomia di una caduta, un film affasciante, compatto, rigoroso, sulla fragilità della realtà, con al centro una splendida Sandra Hüller, quest’anno anche in Zone of Interest (4/5).

American Fiction di Cord Jefferson è quel che si suol dire un film carino. Parte bene ironizzando sull’incapacità contemporanea di contestualizzare parole e pensieri nei tempi e nei luoghi in cui hanno avuto origine, nel suo svolgersi conserva il tema integrandolo con l’appiattimento verso rassicuranti luoghi comuni che fa la fortuna di molti autori (scrittori, in questo racconto). Si perde, però, in una specie di commedia degli equivoci, e alla fine si pone come un film gradevole, ma non particolarmente incisivo e inutilmente sospeso (3/5). Past Lives di Celine Song è un film molto romantico, nostalgico, sentimentale, ce lo dice fin dalla prima inquadratura e lo ripete in continuazione. Parla di vite possibili, incroci statistici e coincidenze perdute, ma si dimentica di costruire i suoi personaggi. Nonostante il suo successo, mi è quindi sembrato un film teorico e senza guizzi, un film sul destino o sulla sua mancanza, con più di uno sguardo a Wong Kar-wai, che non suscita interesse reale nella destinazione dei suoi piattissimi protagonisti, che si limitano a enunciare soltanto le caratteristiche che li renderebbero esseri umani, oltre che le parti di un film a tesi (2,5/5). Di Barbie mi sento di dire solo che dalla coppia Gerwig Baumbach mi aspettavo decisamente di più. Prima dell’uscita del film pensavo a come sarebbe difficile scrivere una sceneggiatura realmente interessante su un prodotto come Barbie, e infatti non lo hanno fatto, hanno titillato gli istinti più elementari di una sorta di femminismo glam e instagrammabile, portandolo nei canoni più risaputi della commedia demenziale americana. Peccato. (2,5/5).

Anche nella categoria Miglior Film Internazionale molti titoli interessanti: Perfect Days, un Wenders in formissima che anche da noi hanno visto in tanti, dimostrando che fare cinema vero può pagare, ancora la Zona di Interesse di Glazer, e Io Capitano di Matteo Garrone, un’odissea che forse non è il suo film più sorprendente (per molti versi credo Garrone sia il nostro regista più bravo), ma un film importante e necessario (3,5/5).

Infine il Miglior Film d’Animazione, categoria potenzialmente interessantissima ma quasi sempre schiacciata su posizioni statunitensi e più precisamente disneyane. Questo potrebbe essere però l’anno della seconda, strameritata statuetta ad Hayao Miyazaki, dopo La Città Incantata del 2003, con il visionario Il Ragazzo e l’Airone. Gli altri titoli sono il Pixar (Disney) Elemental (3/5), un po’ confuso e non proprio memorabile, ma comunque migliore specialmente delle ultime prove a marchio puramente Disney, Nimona e Spider-Man: Across the Spider-Verse. Nimona è un cartone molto Netflix, fatto di tratti stilizzati, montaggio veloce e messaggi inclusivi condivisibili quanto veicolati in modo didascalico (3/5), mentre Spider-Man è uno straordinario esempio di avanguardia superammiccante. Nell’ennesima variazione sul tema degli universi paralleli, la storia è terribilmente maltrattata, una sovrapposizione di momenti che riprendono altre storie, ne mescolano i topoi senza portare a compimento o alla maturità nessuna narrazione. Dal punto di vista estetico e cinetico riprende varie correnti sperimentali ampiamente sperimentate, specialmente nell’animazione, portate in un montaggio epilettico, così costantemente frammentario e ultraveloce da non avere ritmo (2,5/5).

Update: ho dimenticato, in questo appello, La Meravigliosa Storia di Henry Sugar, cortometraggio (ma di 40′) di Wes Anderson e oggi prima statuetta per il regista. I quattro corti che Anderson ha tratto da scritti poco noti di Dahl sono su Netflix e sono abbastanza sorprendenti. Sia per la versione matura dello scrittore che offre uno straordinario punto di partenza, sia per quello che mi sembra sia un nuovo periodo d’oro del regista. Henry Sugar unisce l’impostazione teatrale e l’estetica consolidata di Anderson, che già con Asteroid City era tornato a realizzare film pienamente convincenti, dall’impostazione autoriale e ispirata.

The Menu, Aftersun, Gli Spiriti dell’Isola, Le Vele Scarlatte, Everything Everywhere All at Once, Pinocchio, Makanai, Copenhagen Cowboy

The Menu (Mark Mylod 2022) è un piccolo film, veloce, ben recitato. Un po’ di mistery alla Agatha Christie, con le forti caratterizzazioni dei personaggi, e di critica alla The Square, non raffinatissima ma d’effetto, su come l’eccesso (di ricchezza, di successo, di vanità) possa privare le persone di uno scopo. Un impianto teatrale con sprazzi di Grand Guignol, dove Anya Taylor-Joy, Ralph Fiennes e Nicholas Hoult si muovono con disinvoltura. Su Prime. (3,5/5)

Aftersun (2022) è il film d’esordio della scozzese Charlotte Wells, e ha molto del cinema silenzioso, meditativo, portato avanti con pochi mezzi, che si trova nella produzione giovanile e indipendente più o meno di ogni parte del mondo. Tolta l’aura sovrannaturale data dalla ricchezza, Aftersun ha molto in comune anche con Somewhere di Sofia Coppola, compresi dettagli come il braccio fasciato del protagonista e le riprese in piscina. Aftersun è l’estate di un padre con la figlia undicenne, le scoperte, le situazioni malinconiche, lo sguardo distaccato sugli ambienti e gli spazi che si alterna ad immagini sgranate, filtrate dalla memoria di una videocamera. Tutto in Aftersun, che è un buon film, sincero, sa di nostalgia e rimpianto. Candidatura all’Oscar per Paul Mescal. Si vede su Mubi. (3,5/5)

Gli Spiriti dell’Isola – The Banshees of Inisherin (2022) doloroso, rigoroso, diretto e recitato davvero bene, è il primo film di Martin McDonagh che mi abbia convinto a pieno. Nonostante la brevità di questi appunti, vorrei passasse l’idea che si tratta di un filmone, come ormai ne fanno pochi. 1923: in una sperdutissima isola irlandese, mentre da lontano arrivano echi della guerra civile, due (ex) amici alimentano fra loro un conflitto sempre più aspro e insensato. Con una scrittura di una precisione commovente, McDonagh non descrive le differenze fra i due, ma le vicinanze, e in questo modo racconta l’autolesionismo della guerra con grande efficacia. Sullo sfondo, una strega shakespeariana sottolinea l’ineluttabilità di ogni cosa. Niente è forzato o gratuito, i tempi e gli spazi sono gestiti alla perfezione, e Colin Farrell e Brendan Gleeson sono qui dei giganti. Ha ricevuto svariate nomination all’Oscar, e meriterebbe tutti i riconoscimenti principali. (4,5/5)

Con Le Vele Scarlatte (2022) Pietro Marcello riprende la strada della fiction inaugurata da Martin Eden. Lo fa con una storia lieve, una fiaba tratta dal romanzo di Aleksandr Grin del 1923 (anno che ritorna). E anche qui, pure se in un film molto diverso, al centro c’è il rapporto fra un padre e sua figlia. Marcello stavolta è più lineare, confeziona un film bello da vedere che ricorda il Garrone de Il Racconto dei Racconti senza essere mai superficialmente estetizzante, grazie alla capacità di dare forza alle immagini rendendole memoria e confondendole con la memoria stessa. Fortissima la figura di Raphaël Thierry, un uomo che sembra ricoperto da strati di corteccia, le enormi mani nodose e piene di solchi, che mostra costantemente la sua fragilità. (4/5)

Pur essendo un film ostentatamente assurdo, caleidoscopico e sopra le righe, anche al centro di Everything Everywhere All at Once (Daniel Kwan e Daniel Scheinert 2022) c’è il rapporto fra un genitore, stavolta una madre, e sua figlia. Chiassoso, spesso esilarante, forse il miglior titolo su quello che in questi anni è diventato un filone estremamente prolifico, quello dei film e le serie che si aprono sul multiverso. Il film unisce i voli pindarici della Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams con suggestioni alla Matrix e scene d’azione strabilianti quanto eccentriche, portando il tutto a ruotare attorno all’amara riflessione sull’esistenza che può schiacciare un’adolescente. Il film è così ricco e spudorato da non rinunciare a momenti di demenza purissima che, nelle infinite possibilità delle cose, hanno tutto sommato piena cittadinanza. L’opera dei Daniels, anche se probabilmente in poche categorie è davvero favorita, ha ricevuto un numero smodato di nomination all’Oscar, dove quel numero è undici. (4/5)

Pinocchio di Guillermo del Toro (2022), non ricordo più tutti i motivi per cui ho trovato terribile questo film d’animazione a passo uno. Ad ogni modo, pur non essendo un fan sfegatato del libro di Collodi, credo che una delle cose più interessanti sia la sua struttura libera, frammentaria, paratattica. Del Toro snobba completamente il testo originale e costruisce una storia narrativa nel modo più classico, una sceneggiatura americana, tendenzialmente disneyana, con tutti gli snodi obbligatori al posto giusto e una buona dose di action. Alla base, come aveva fatto (molto meglio) nei suoi primi film che ruotano attorno al franchismo, ampi riferimenti alla dittatura fascista, anche qui senza dare una lettura che giustifichi la scelta, ma utilizzando la cornice per qualche sberleffo e per calare i personaggi nella totale normalità dell’intreccio. Rischia di vincere l’Oscar per il miglior film di animazione. (2/5)

Per finire, un paio di serie. Makanai (2022), 9 episodi su Netflix, è prodotta e in parte diretta da Kore-eda. Tratta da un manga di Aiko Koyama che ricorda il Taniguchi più zen e quotidiano, è il racconto corale, ambientato a Kyoto, di un gruppo di aspiranti maiko. Praticamente privo di conflitti espressi, Makanai è ricco di dettagli, di pensieri, di cultura e di vita. Probabilmente una delle mie serie preferite. (4,5/5)

Copenhagen Cowboy (2022), su Netflix, è, dopo Too Old to Die Young, la nuova serie di Nicolas Winding Refn. Nella serialità Refn è anche più cattivo e radicale nella scelta dei temi e dei tempi, mentre si dà un freno su quanto sia possibile mostrare. Sempre più arty, è uno spettacolo di regia, di luci e musiche, di movimenti di macchina e gestione dei tempi, di desolazione umana e smarrimento in spazi squallidi e labirintici. Un prodotto non per il grande pubblico, ma che costruisce una protagonista femminile come se ne trovano poche. Piaciuto molto, spero NWR riesca a dare seguito al progetto. (4/5)

È andata così

I Mitchell contro le macchine: 4/5
Molto divertente e ben fatto I Mitchell contro le Macchine, storia di famiglia mediamente incasinata alla prese con l’apocalisse robot. Animazione con tratti di ibridazione, ritmo veloce ma non epilettico, la migliore produzione occidentale vista negli ultimi tempi. Sta su Netflix.

Luca: 4/5
Un film vero, ben scritto, pieno di riferimenti ma anche di idee, bravi tutti.

A man in love: 4/5
Taiwanese agrodolce alla massima potenza.

The suicide squad: 2/5
Francamente imbarazzante.

Shinko e la magia millenaria: 3,5/5
È un Gualtiero Cannarsi in piena forma, quello dell’adattamento recente di Shinko e la Magia Millenaria. Una lucidità che al confronto l’Hunter Thompson di Paura e Delirio è un monaco birmano. Lui rimane uno dei più grandi misteri italiani, detestato da decenni, è sempre lì. Shinko è un film del 2009 di Sunao Katabuchi, animatore Ghibli che conserva una forte impronta Ghibli. Giappone anni ’50, storie di gioventù agreste, squarci di quotidianità a tratti molto dura (come nel suo più recente In Questo Angolo di Mondo), mitigata dalla voglia di scoprire la vita dei ragazzini protagonisti. Ogni dialogo è reso in maniera assurda e forzata, a volte con errori evidenti di denominazione degli oggetti. L’imbarazzo dei doppiatori è palpabile. Se si riesce a sopportare l’opera del Distruttore, il film è bello, dal taglio letterario, descrittivo e delicatamente biografico.

Riflessi sulla Pelle: 4/5
Scritto e diretto da Philip Ridley, nel 1990. Film con un giovane Viggo Mortensen e protagonista un bambino che ha fatto solo questo, per poi rimanere probabilmente traumatizzato a vita. L’ambiente è l’America delle case di legno oblique, alla Hopper, sperdute nei campi di grano. Una manciata di figure perse nell’isolamento spaziale ed emotivo, in continua relazione con la violenza, la perdita e la morte. Un’impostazione espressionista con luci nette, linee spezzate e balzi su primi piani allucinati. Spazi modellati dallo smarrimento dei protagonisti, una ferocia costante e interiorizzata che sovrappone la specifica realtà – con il completo rifiuto del “diverso”, la negazione e il ribaltamento dell’innocenza – alla violenza e l’abbandono universale. Adotta cornici e personaggi da fiaba cupa, ma senza concedere la scappatoia dell’irrealtà o dell’incubo. Una bestia strana, complessa e disturbante, che difficilmente potrebbe essere realizzata in questo periodo. Si trova su Prime.

A single man: 4,5/5
I film a Tom Ford vengono straordinariamente bene, peccato ne faccia così pochi. Recuperato con ritardo, questo è un film potente ed equilibrato, una grande prova in ogni comparto.

Sing street: 4/5
Storia giovanile romantica agrodolce divertente anniottanta con molta musica. Va dritto per la sua strada, se ne fotte della plausibilità, ma è anche il suo bello.

Vi presento Toni Erdmann: 2,5/5
Mi domandavo se esista l’umorismo tedesco. La risposta definitiva è: no.

Minari: 3/5
Vincitore di varie cose e candidato a molti Oscar importanti, fra i quali film e regia. Avevo letto recensioni solari, speravo in una cosa alla Kikujiro, ma non è precisamente così. Minari è una storia familiare e pionieristica, negli Stati Uniti reaganiani, con genitori, due figli e nonna coreana a cercare di sfangarla negli spazi dell’Arkansas. Un film di confronto umano, interno ed esterno al nucleo, che accosta, nella crescita del figlio minore, il disincanto ancestrale della nonna (personaggio migliore) ai nuovi riti della comunità cristiana d’adozione. Il tutto in diretta dipendenza con le forze della natura e della fortuna. Non è un film opprimente o cupo, ma neanche una passeggiata di salute. Ben diretto, piacevole da vedere, ma non epocale, nel bene e nel male non calca mai la mano.

1917: 2,5/5
Non nutro particolare rancore verso 1917, ma quel che mi viene da dire è che la complessità dell’intreccio se la gioca con L’innaffiatore innaffiato dei Lumière, e che in generale ho avuto l’impressione di attraversare un’installazione sulla prima guerra mondiale. Una World War Experience spesso vuota, visitata fuori dalle ore di punta.

On the rocks: 3/5
Bill Murray è una specie di Berlusconi colto e liberal, e lo fanno recitare più del solito. Dice un buon numero di cose, canta, si muove pure un po’, non si limita a comparire ogni tanto con sguardo Murray. Il film è effettivamente un filmino, Coppola direi invisibile, ma per vedere un piccolo film garbato va bene.

Dov’è il mio corpo?: 4/5
Un bel film, triste ma non mortale, che integra bene il fantastico in modo da dare senso e originalità alla storia di vita.

Uncut gems: 3/5
Non è brutto, ma speravo nel filmone invece è un filmino. Sì c’è Scorsese, De Palma, una gestione del suono che ricorda le voci di Altman, tutte sullo stesso piano, ma più di tutti Ferrara. Quel Ferrara sconclusionato e un po’ pretestuoso di New Rose Hotel e soprattutto Go Go Tales che a me stava assai simpatico, ma che il resto del mondo – che adesso insegue questo titolo dei Safdie – prendeva per il culo e vedeva perso senza l’aiuto di Nicholas St. John. Ferrara aveva la spontaneità del tossico, qui invece ci si prende sul serio e Sandler, visto che ha fatto un film che a lui sarà parso bizzarro, è stato mesi a reclamare Oscar, Nobel, Orsi di pezza. La miriade di riferimenti lascia intendere come l’impianto non sia propriamente rivoluzionario, ma almeno è uno dei pochi titoli a distribuzione Netflix che non ha la patina Netflix.

Ema: 3,5/5
Molto bello da vedere, fotografia limpida, begli interni postindustriali e spazi urbani, azzeccati gli attori, mi aspettavo però qualcosa in più. Specialmente nella scrittura che, dati gli argomenti trattati, rimane forse non troppo d’impatto, come le numerose scene di danza che scandiscono la storia. Comunque un interessante melò moderno. Divertente l’invettiva contro il reggaeton.

Alita: 4/5
Action sci-fi che funziona. Infatti lo hanno mollato a metà della storia.

Dear ex: 3,5/5
Taiwanese un po’ melò, un po’ fumetto. Si lascia vedere, con alcuni momenti buoni.

Raya e l’ultimo drago: 3/5
Esteticamente buono, tutto il resto inconsistente.

Uncle Frank: 3/5
Storia familiare molto minimal, con una protagonista che sembra debba essere tale, e invece è solo un pretesto.

City of lost things: 2,5/5
Un espediente pretenzioso per un film con molti cali.

Gentlemen: 3,5/5
Guy Ritchie funzionante.

Hanna: 3/5
Molto tirato, così tirato da diventare piatto. Saoirse Ronan sempre brava.

Hamilton: 4/5
Spettacolone.

Little Joe: 2,5/5
Un messaggio non banale, ma non basta a fare il film.

Tesnota: 3/5
Kantemir Balagov molto meglio nella sua prova successiva, La ragazza d’autunno. Film per me inquinato dalla violenza reale.

Days (Rizi): 3,5/5
Tsai Ming-liang pittorico, radicale, ma se hai visto tutto il resto hai visto anche questo.

Bande à part: 4/5
Folle.

Anchorman: 2,5/5
Pensavo meglio.

Primo amore: 4/5
Duro, ben fatto, un film vero.

Over the Moon: 3/5
Carino ma anche un po’ troppo plastificato.

Baby Driver: 4/5
(S)corre bene, ci sa mettere il suo, oltre a tanta buona musica.

Mister Link: 4/5
Bella stop motion, molto filmica.

First cow: 3,5/5
Piccolo e poetico racconto western.

Cafè society: 3/5
Si lascia vedere, si dimentica in fretta.

Il mistero Henry Pick: 2,5/5
Speravo meglio, si sorride un paio di volte.

Paura del portiere: 3/5
Le origini di Wenders, interessante.

I origin: 2,5/5
Un film a tema, un po’ new age, tanti sospiri, ma abbastanza inconcludente.

Un altro giro: 3/5
Poco centrato, purtroppo.

Chaos walking: 2,5/5
Sci-fi abbozzata, esteticamente e narrativamente.

Crudelia: 3/5
Bello da vedere, colonna sonora ruffianissima ma ovviamente d’impatto, mantiene non più della metà delle sue promesse.

Vivo: 2,5/5
Un’animazione stravista e poco curata, noiose anche le canzoni.

Words Bubble Up Like Soda Pop: 4/5
Anime ben fatto, forte di una cifra personale. Riuscita rappresentazione dei nuovi mezzi, profili digitali per nuove generazioni e aspiranti idol, che si mescola alla ricerca di emozioni e supporti passati. Bel film sentimentale, che non cade nel sentimentalismo.

Solo roba buona: Malcolm e Marie, A Sun, La Ragazza d’Autunno, The Witch, Little Big Women

Se dei film che mi sono piaciuti non appunto qui qualche riga non riesco a farmene una ragione. Sarà una cosa ossessiva, ma non la peggiore fra le ossessioni. Mi riallaccio a quel Robert Eggers che dal Faro mi ha portato a The Witch (o The VVitch, 2015). Vero, The Lighthouse è più indefinito, ambizioso, cervellotico, ma in un modo che me l’ha fatto piacere davvero tanto. The Witch pure non aderisce ai canoni dell’horror cinematografico (che mi attirano poco), ma si avvicina molto di più alle radici dell’horror letterario, quello che nasce dalle paure rurali, dalle fiabe intimamente terribili che raccontano la crudeltà dell’uomo e della natura, che all’uomo impone la miseria. The Witch propone una costruzione pittorica dell’immagine, come elemento della messa in scena filologica di una fiaba nera di qualche secolo fa. È un film ossessivo e riuscito, non disordinato e irrazionale come il lavoro successivo del regista, ma d’impatto e compiuto; già interessante, ma proprio per questi motivi meno interessante. Protagonista la giovane regina degli scacchi Anya Taylor‑Joy. (3,5/5)

La Ragazza d’Autunno (Kantemir Balagov 2019) è un film tosto e molto bello, un romanzo russo e un racconto della guerra attraverso le ferite che lascia sulla gente, le vicende di due ragazze che dalle macerie cercano di creare una loro storia. Il tutto in una costruzione di quadri e di sguardi giocata su splendide composizioni cromatiche (da citare come co-autrice la direttrice della fotografia Ksenia Sereda), con al centro il verde e il rosso a identificare e fondere le protagoniste. Nota a margine, Kantemir Balagov è un 29enne con la faccia da ragazzino, che ha studiato con Sokurov e ha firmato il suo primo film di rilievo internazionale, Tesnota, a 26 anni, come Welles. È su Prime. (4/5)

Altro consiglio molto sentito, per quando si ha voglia di un filmone: A Sun, film del 2019 del taiwanese Chung Mong-hong. Autore classe 1965, che in questo titolo dimostra cosa sia costruire una storia con maturità, consapevolezza e sensibilità. Sin dalla nuova onda orientale a cavallo dei millenni, quella taiwanese, trascinata da Tsai Ming-liang e Hou Hsiao-hsien, è spesso la filmografia più compiuta ed equilibrata. A Sun non ha i tempi lunghi e l’autorialità radicale dei maestri, ma una storia familiare completa che tocca diversi registri drammatici senza esasperarli (problema di molti coreani), conservando un’attenzione per i volti e gli spazi che, se ce ne fosse bisogno, riconcilia col cinema. Bellissimo. Lo si trova su Netflix. (4,5/5)

Sempre su Netflix si trova anche l’altrettanto taiwanese Little Big Women (Joseph Chen-Chieh Hsu 2020), campione d’incassi in patria. Anche il film di Joseph Hsu è una storia familiare, ha la forma di un melodramma curato, ma un po’ vuoto, piacevole ma non memorabile. Il film sembra offrire un pathos e una coralità che rimangono in parte nel richiamo delle abitudini del genere, senza infondere vera vita ai personaggi e le loro dinamiche (3/5). (Ho promesso nel titolo solo cose belle, ma fra parentesi voglio completare la serie orientale citando Cities of the Last Things di Wi-ding Ho, Hong Kong 2018. Un film più piccolo di quel che vorrebbe, che prende il via da scenari futuristici e si svela attraverso una costruzione cronologica inversa, ma non mi ha colpito più di tanto. Spesso superficiale e con una storia sulle dinamiche che nutrono la violenza, tutto sommato, piuttosto banale, non mi ha lasciato grandi immagini o sensazioni. (2,5/5))

Chiudo con Malcolm & Marie (Sam Levinson 2021), anche questo su Netflix. Film da camera, girato con due attori e una location durante le restrizioni pandemiche, e film fighetto, dal momento che i due attori sono Zendaya e John David Washington che si misurano animatamente su alcuni aspetti dell’esistenza e dell’arte. Ma film che mi è piaciuto, e neanche poco. Una delle cose più divertenti è come le critiche sfavorevoli (ne ho lette alcune particolarmente ottuse) ricalchino perfettamente una delle idee centrali del film, ovvero che le critiche idiote siano innamorate di un’idea di cinema che rispecchia solo la vanità del critico stesso, e cerchino una coerenza elementare e posticcia che in realtà non ha a che vedere con il senso di qualsiasi processo artistico. Malcolm & Marie – una notte di confronto e scontro in bianco e nero, in una villa, fra un regista in carriera e la sua fidanzata ex tossicodipendente – è un pezzo teatrale ben scritto e ben riportato nel linguaggio del cinema. Uno specchio deformante che mostra quanto siano differenti le idealizzazioni delle relazioni e del cinema stesso, che vorremmo così definiti e finalizzati, dai moventi reali, che rimangono confusi e soggetti a mutazione, forme di (auto)inganno, come ogni buona dipendenza. Eccessivo quanto basta, sorretto da performance recitative consapevolmente marcate, Malcolm & Marie è molto meno patinato di quanto possa sembrare, ed è un buon inno all’incoerenza, alla mancanza di consapevolezza, all’idea che non tutto debba essere compiuto e comunicabile, anzi che buona parte dell’interesse che ognuno di noi riesce a conservare in vita, venga dalla predestinazione all’errore. (4/5)

Succession, Queen’s Gambit, La Ragazza del Tempo, Dune e un sacco d’altra roba come buttata su un diario

Dalle ultime settimane, in alcuni casi gli ultimi mesi, cose sparse cominciando da Succession, due stagioni di serie tv che ha vinto una quantità di Emmy. Sorpresa sorpresa: meritatamente. Da parecchio non mi sparavo un drama con simile costanza, l’ho cominciato dopo aver abbandonato The West Wing, ennesima conferma dell’intimo conservatorismo che Sorkin cela dietro la sua logorrea fintamente brillante. Succession è quello che Sorkin non riuscirà mai a fare, una piece caustica sul potere, sulla famiglia, sui genitori che divorano i figli, sul sarcasmo con cui alcune cose andrebbero punite, il tutto messo in scena da attori enormi. Ci sono Shakespeare, DeLillo, Altman, la fame americana storica e contemporanea, in una regia a seguire, che con piccoli scatti della camera cerca dettagli, movimenti, nuche, a volte trova ampi paesaggi e architetture che in altre occasioni avrebbero portato a lunghe inquadrature paniche, qui sono schiaffi di massimo due secondi, perché a Succession soprattutto interessa prenderti a schiaffi (4,5/5). Cosa metterci dopo? Una cosa che non c’entra niente, The Duchess, su Netflix, una veloce comedy britannica che fa spesso ridere, 6 puntate da 20 minuti, praticamente un film, con una madre sboccacciata e i personaggi stralunati che le girano attorno. È una serie singolarmente volgare e al tempo stesso indubbiamente raffinata, consigliata (3,5/5). Rimanendo in zona femminile e comedy, pur in senso piuttosto ampio, su One Mississippi, due stagioni su Prime, avrei voluto scrivere qualcosa in più, ma poi mi sono distratto. Avrei voluto perché è un qualcosa di godibile e immediato, ma anche di ampio e stratificato. Realizzato da Tig Notaro e Diablo Cody, racconta la vita della prima attingendo parecchio alla sua vita reale. Racconta il suo tumore al seno, la sua vita sentimentale, le difficoltà dell’essere donna e dell’essere donna e omosessuale, sempre con un linguaggio che oserei definire unico, nel suo essere incisivo e delicato al tempo stesso. Si può poi integrare l’esperienza guardando i suoi spettacoli, altrettanto legati alla sua vita, sono su Netflix. One Mississippi: 4/5. Kipo, sempre Netflix, parliamo di una serie per bambini, per bambini scafati, di una serie animata che si sviluppa in tre stagioni ed è una delle storie più compiute e curate che si possano trovare in giro, e non solo fra le cose per bambini. Una roba fantascientifica, apocalittica, spigolosa, lisergica, divertentissima, miyazakiana, piena di bestie, di amici e nemici che diventano amici, di musica, di mutazioni, di mondi. Non lasciatevi respingere dai colori pieni, dall’animazione a prima vista poco raffinata, sparatevelo con o senza pargoli (4/5). La Regina degli Scacchi – The Queen’s Gambit, è il titolone del momento, e in sostanza se lo merita. Una storia quasi fiabesca, che comincia in un orfanotrofio negli anni ’50 e mette la sua protagonista in questa e molte atre situazioni potenzialmente drammaticissime, e invece conserva un registro che quasi abbraccia lo spettatore. Tutto azzeccato, colori, personaggi, musica, brava lei, intreccio di eventi e ricostruzione affettuosa degli anni, le partite a scacchi girate a metà fra una partita a poker e un incontro di boxe, ko compresi; niente di rivoluzionario ma tutto molto bello (4/5). Finiamo in bruttezza? La seconda stagione di The Boys, su Prime, è una delle più grandi truffe in cui sia inciampato ultimamente, un’accozzaglia di pezzettini mal gestiti al servizio della retorica più sfrontata e didascalica, un ditino fintamente puntato contro l’America con un linguaggio farlocco che cosa più americana non c’è (2/5).

Qualche film, purtroppo non li ricordo tutti, per questo devo segnarmi le cose. La Ragazza del Tempo – Weathering with You, è il nuovo film d’animazione di Makoto Shinkai, l’autore di Your Name. Per grandi e piccini (ma non troppo piccini), sicuramente una cosa bella vista ultimamente; più intimo e riflessivo di Your Name, La Ragazza del Tempo è una storia fantasiosa e romantica che racconta l’incontro, il sacrificio, lo smarrimento e la perdita, il tutto con alcune scene visivamente ragguardevoli. Notevole (4/5). Altro cartone, Over the Moon, su Netflix, è una produzione di Stati Uniti e Cina, con quest’ultima come punto di riferimento estetico. Qui, all’interno di un registro pienamente adatto all’infanzia, l’elaborazione della perdita è centrale. Molte immagini sono piacevoli, la protagonista, alle prese con un viaggio fantastico, è degna di affezione, ma nel complesso il mondo di Over the Moon sembra un po’ vuoto, è un film più definito nel suo messaggio, intrecciato con le figure delle fiabe cinesi, che nel modo per renderlo spettacolare. Comunque, gradevole (3/5). Siamo a Natale, vale la pena far presente che anche la recente trasposizione de Il Richiamo della Foresta, quella con dentro Harrison Ford, è una visione piacevole. Film del tutto familiare, smussato in tutte le parti potenzialmente dure che ha il romanzo di London, ma apprezzabile anche in questa scelta di massima fruibilità. Gli animali, Buck in primis, sono del tutto digitali, ma l’effetto è meno straniante di quanto temessi. Infatti non c’è una vera ricerca di verosimiglianza, è come se all’interno degli scenari reali siano integrati personaggi d’animazione, che anche nell’espressività e le interazioni ricordano le bestie antropomorfe dei classici Disney. Buon ritmo, buoni sentimenti, bei paesaggi, e Ford meglio qui, finalmente vecchio, che falso giovane con il giubbetto di pelle dell’ultimo Han Solo (3,5/5). Mettiamo pure una roba per grandi: Palm Springs, film reperibile su Prime con la faccia buffa del tizio di Brooklyn Nine-Nine e quella carina della tizia di How i Met Your Mother. È un film in piena rivisitazione de Il Giorno della Marmotta, con qualche variazione diretta a portare il tutto su binari più romantici. È un piccolo film, gradevole, ma qualcosa di realmente utile a distaccarlo dalle aspettative più immediate, in verità, non c’è (3/5).

Memorie del Sottosuolo è un breve scritto in cui Dostoevskij dice un sacco di cose. Parla del suo tempo e di sé, si maltratta e si nasconde, ricerca l’umiliazione soprattutto per dimostrare quanto disprezzi il prossimo, e quindi per disprezzare doppiamente sé stesso. C’è tanta sofferenza in Memorie del Sottosuolo, spesso trattata con uno spietato humour. Ma su una cosa del tutto diversa soprattutto volevo lasciare qualche appunto, il ben più corposo primo tomo di Dune, di Frank Herbert, 1965. Un film volevo vedere io quest’anno, ed era il Dune di Villeneuve, che hanno rimandato al TREMILA. Ad ogni modo, avevo affrontato questo mattone miliare della fantascienza mondiale per arrivare preparato. Scherzo, in realtà Dune fila via molto più agevolmente di quanto credessi e mi è piaciuto parecchio, fra i libri “narrativi”, cioè dedicati al racconto di una storia e non all’autore e la sua scrittura, uno dei più convincenti, nella mia esperienza. Dune ha tante anime, è tante cose, un’epopea psichedelica e iperbolica dove le donne “Bene Gesserit” hanno sviluppato doti affabulatorie tanto persuasive da essere assimilate alle streghe, gli uomini “Mentat” sono capaci di immersioni nella logica (spesso più millantate che effettivamente sconvolgenti, c’è da dire) che toccano il sovrannaturale e li svuotano dell’umanità. C’è tantissimo in Dune. Lunghi capitoli dall’impostazione teatrale, che si spiegano con le fitte voci del pensiero e i dialoghi complessi. Ci sono mondi che modellano gli esseri che li abitano, esseri che si adattano per inseguire la vita in ogni condizione. Questo forse l’aspetto più interessante, la mutazione dell’essere umano resa nel racconto come acquisita, che consente di confondere l’ambiente con le personalità: ogni personaggio incarna la sua terra e ogni terra incarna  e determina un carattere, così ogni incontro o scontro diventa un confronto fra mondi. C’è la costruzione di un universo toccando ogni aspetto, c’è anche l’azione e la meraviglia, e un modo indiretto di raccontare unioni e sentimenti che presenta un’eleganza che non credevo di trovare. Avrei voluto scriverne confrontandolo, almeno, con il film di Lynch visto ere geologiche fa, ma non ho ancora avuto modo di rivederlo, dunque per il momento questo è tutto.

Mulan (Niki Caro 2020), Ad Astra (James Gray 2019), Medianeras (Gustavo Taretto 2011), due film migliori di come li si dipinge e un outsider

Non voglio fare, come ho visto in giro, la misurazione dei decametri (era tanto che volevo usare questa parola) di femminismo persi o guadagnati, rispetto la versione animata di Mulan, anche perché di quella ricordo poco, soprattutto un senso di noia. Forse ero già troppo vecchio, quando l’ho visto. Adesso, invece, che l’ulteriore senilità mi ha riportato un tollerante sguardo giovanile (ah ah, non è vero), mi viene da dire che questo film di Niki Caro sia la prima trasposizione live di un classico Disney di cui vedo un senso. Il primo che tutto sommato assomiglia a un film, naturalmente un film per famiglie, per quante più famiglie possibile. Sì, è un wuxiapian americano, ma non un brutto wuxiapian. Le coreografie, come sempre vicine alla danza, hanno un loro fascino, gli effetti speciali sono bene integrati, i paesaggi aperti sono a effetto ma il loro effetto lo fanno, gli attori sono azzeccati. Mulan è un film di guerra, d’avventura, di smarrimento e rinascita del protagonista come sarebbe un film per adulti dello stesso genere, con scontri che lasciano sul campo morti e feriti, con l’unica ovvia differenza che non sono sporchi di sangue. Due ore di intrattenimento che funziona, non sciocco e visivamente valido. (3,5/5)

Con Ad Astra, a dispetto delle reazioni spesso non entusiaste che ha suscitato, prosegue il mio graduale riavvicinamento a James Gray. E il film ha molto in comune con Civiltà Perduta, su tutto la chiara discendenza da Conrad / Apocalypse Now. Brad Pitt è l’indiscusso protagonista, che attraversa inimmaginabili distanze spaziali alla ricerca di suo padre (Tommy Lee Jones), novello Kurtz, pioniere ed esploratore siderale i cui metodi sono diventati “malsani”. A Brad Pitt, va detto, non ne va una bene; posto già di fronte a un’impresa improbabile, per procedere in ogni sua mossa deve trovare come disinnescare il peggior scenario possibile, che puntualmente si ripropone. Da qui, inutile negarlo, nascono alcune scene che richiedono davvero una generosa offerta di sospensione dell’incredulità. Eppure Ad Astra, che è accompagnato dalla riflessione costante del figlio all’epica ricerca della comprensione del padre, offre uno sguardo esterno sempre efficace, un’azione immersa nel silenzio affascinante anche quando improbabile, una versione malinconica e al tempo stesso frenetica del vuoto universale che ha una sua originalità. (3,5/5)

Medianeras – Innamorarsi a Buenos Aires, è un piccolo film del 2011 dell’argentino Gustavo Taretto. Che mi sembra, invece, abbia avuto nel suo giro un discreto successo. Che si tratti di una versione estesa di un corto precedente è abbastanza evidente, soprattutto perché è uno di quei film che si reggono su un tono e un’idea; non è però eccessivamente stiracchiato, anzi è garbato, misurato e piacevole. Mi ha molto ricordato il racconto lievemente stralunato e ironico di Hong Kong Express, la rappresentazione di due tracce sentimentali parallele che lasciano indizi più o meno inconsapevoli, per provare a definirsi, sperando che qualcuno possa decifrarli. Anche le voci over hanno un ruolo simile a quello del film di Wong Kar-wai, e lo sguardo è elegantemente freddo, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare a quelle latitudini. Una storia che contiene tante piccole storie, incroci, riflessioni sul sé che si descrive nei rapporti con gli altri, un racconto che si muove agilmente fra le architetture di Buenos Aires, fra edifici bizzarri e dettagli nascosti. (4/5)

Minima Immoralia: I Miserabili, BlaKkKlansman, Border, Favolacce, Pinocchio, La Famosa Invasione degli Orsi in Sicilia, Mià e il Migù

I Miserabili – Les Miserables (Ladj Ly 2019) Una giornata nelle periferie di Parigi che riassume anni di stratificazioni e tensioni sociali. Film forte e doloroso, un discorso ampio e decentrato che vuole essere un’istantanea di molti mondi, riportati a una violenta situazione di stallo. Molto ben fatto anche cinematograficamente: sceneggiatura ritmata e tesa su regia documentaristica, con rimandi a Spike Lee e Scorsese, o anche a un Greengrass con meno affanno. Da vedere. (4/5)

BlaKkKlansman (Spike Lee 2018), forse il mio film preferito di Lee, assieme a Fa’ la Cosa Giusta. Un film schiettamente politico, che ricostruisce una vicenda e degli ambienti degli Stati Uniti razzisti degli anni ’70. Uno di quei casi in cui essere diretti non vuol dire essere didascalici, ma più che altro non volersi perdere nelle stronzate. La cosa è possibile grazie a una storia che si racconta da sola, ed è raccontata meglio da attori (John David Washington e Adam Driver) e autori in perfetto tono. C’è la ricostruzione, c’è il cinema e il suo impatto sulla storia (spettacolare il dito puntato contro Nascita di una Nazione), c’è il richiamo diretto alle follie di qualche anno fa che anticipano perfettamente la follia più recente, successiva al film: l’omicidio di George Floyd, la reazione, la straordinaria capacità dell’Occidente di stare sui social a discettare se le discriminazioni esistano o meno, a ricercare sfumature. (4,5/5)

Border – Creature di confine (Ali Abbasi 2018) Dalle pagine di John Ajvide Lindqvist era già nato l’ottimo Lasciami Entrare, per la regia di Tomas Alfredson; Border ha avuto anche più fortuna, ma a me è appena piaciucchiato. I temi rimangono simili, la diversità, che si rispecchia in una unicità o menomazione sessuale che isola i protagonisti, alla ricerca di un’appartenenza. Chi ha amato Border credo abbia concesso molto alla storia, anche romantica, dei protagonisti, e abbia sottovalutato degli aspetti di violenza – concettuale prima che visiva, di efferata vendetta verso il genere umano – che, non ben amalgamati né giustificati, finiscono per sabotare la forza del racconto. Oltre alle perplessità nella gestione dei temi, Border è più lontano da me anche nelle preferenze estetiche. Lasciami Entrare e Border credo siano due lati della stessa medaglia, su temi vicini il primo è la rivisitazione del mito del vampiro, il secondo guarda ai licantropi (anche se in giro si parla più di troll, ma il lato canino mi pare evidente). Se Lasciami Entrare, che mi è più affine, è la neve, il ghiaccio, i silenzi, le linee chirurgiche, Border è la terra, gli odori, i sensi in continua stimolazione, i colori caldi. (3/5)

Favolacce (Fabio e Damiano D’Innocenzo 2020). Un film che non mi ha convinto. Una rappresentazione molto drammatica e nichilista della famiglia, della società, una disperata cancellazione del futuro. Tutti temi che spesso mi affascinano, e che anche in Italia e di recente hanno trovato, con lo stesso Garrone, con Caligari, in parte anche con Pietro Macello, espressioni eccellenti. Volendo guardare ai cugini greci, Lanthimos ha costruito su questi temi alcuni dei suoi titoli migliori e più spiazzanti, da Dogtooth ad AlpeisQuello dei D’Innocenzo è un approccio che in qualche modo richiama la fissità e il grottesco di Lanthimos, ma sembra un compito che punta tutto sull’impatto della conclusione, sulla chiusura della tesi. Gli adulti esplicitano costantemente la loro violenza, la raccontano, se ne vestono, i bambini sono vittime silenziose, nel mezzo, alla fin fine, ci viene offerto assai poco. (2,5/5)

Pinocchio (Matteo Garrone 2019). La storia di Pinocchio è per tutti ormai così priva di sorprese, che a stupire dev’essere la sua trasposizione. Io non sono un pinocchista, ma la faccio breve: Garrone ha fatto un gran film. È fedele al testo, ma anche superiore allo stesso, lo esalta e lo porta a trovare la dimensione visiva che, a questi livelli, non aveva mai avuto. Così il Pinocchio di Garrone crea un mondo fantastico unico (per certi aspetti, e soprattutto certe luci, vicino al trattamento fatto con Basile, ma senza truculenze, più compatto e con maggiori rimandi alla contemporaneità), degno della fama mondiale dell’opera, un gotico rurale meraviglioso a vedersi per tutta la sua durata. Ma non è solo un esercizio estetico, è anche una parata di personaggi, con in testa Roberto Benigni a incarnare il Geppetto più umano e naturale possibile, che offrono con generosità la loro presenza, rendono reale la fiaba e costruiscono uno splendido omaggio al teatro, tratteggiando i loro caratteri anche in pochi secondi o in una manciata di battute. Garrone è probabilmente il nostro miglior regista. (4,5/5)

La Famosa Invasione degli Orsi in Sicilia (Lorenzo Mattotti 2019). Uno splendore, una favola sul confronto, il conflitto, l’integrazione, riportata in immagini e colori pieni di una bellezza rara. Le animazioni, le linee nette e geometriche che si fanno anche morbide mi hanno ricordato l’altrettanto riuscito The Secret of Kells, ma sono poi i tratti consolidati del bravissimo Mattotti. (4/5)

Mià e il Migù (Jacques-Rémy Girerd 2008) è un altro piccolo grande film per tutti. Qui le immagini sono disegnate, i tratti evidenti di matita a dare le espressioni, i colori sfumati nei campi lunghi, un altro modo per riportare nell’estetica il fascino della natura e del suo respiro. Molteplici ed evidenti i richiami al Miyazaki naturalista di Mononoke e Totoro, e anche al sodale Takahata, nelle sperimentazioni de La Principessa Splendente e, semplicemente, nella figura di Heidi. Una storia profonda trattata con lievità, che si concede ottimismo senza diventare lezioso e riesce a portare calore nei suoi personaggi. (4/5)

Sicario: Day of the Soldado (Stefano Sollima 2018)

sicario-day-of-the-soldado-slowfilm-recensione

Sicario era la dimostrazione di come un bel film d’autore, con le sue lentezze e le sue ombre, potesse avere anche la forma di un film d’azione. Soldado è la dimostrazione di come rallentare un brutto film d’azione non sia sufficiente a renderlo un film d’autore.

Taylor Sheridan con questa sceneggiatura completa la sua trilogia di quattro film (aperta a un quinto), prende ancora a caso da Ghost Dog, mentre una Hildur Guðnadóttir prova a scimmiottare anche Jóhann Jóhannsson.

(2/5)